Ricordate la polemica su un insonne sovrintendente nell’epoca del renzismo trionfante? A qualche mese di distanza, girando per il Parco da lui sovrinteso, e costatando la sensazione di totale abbandono, uno stato mai raggiunto in passato, verrebbe da consigliargli qualche ora di sonno in più.
Si dice in città che il suo curriculum abbia a che fare più con il marketing che con i cosiddetti beni culturali. Strano allora che nel monumento sia in corso un’iniziativa diciamo artistica ben poco pubblicizzata. Si tratta di un’operazione dell’ambiziosissimo collettivo Cracking Art, che si prefigge nient’altro che “cambiare radicalmente la storia dell’arte attraverso un forte impegno sociale e ambientale che unito all’utilizzo rivoluzionario dei materiali plastici mette in evidenza il rapporto sempre più stretto tra vita naturale e realtà artificiale.”
Ma anche se la cosa fosse stata maggiormente pubblicizzata ciò non avrebbe risolto il problema che contraddistingue tanta parte dell’arte già dal secolo scorso, ovvero l’incapacità di comunicare e farsi capire dai non addetti ai lavori, dalle ristrette cerchie di intellettuali autoreferenziali. E quindi ecco che il pubblico ride o rimane perplesso di fronte a questa iniziativa. Ma di cosa si tratta? All’ingresso principale della Reggia e lungo la galleria che la collega all’asse centrale del Parco sono state collocate oltre 50 opere d’Arte di plastica riciclabile e rigenerata, raffiguranti lupi, rane, chiocciole, suricati e rondini. Ognuno di questi animali simboleggia delle caratteristiche positive: il lupo simboleggia l’idea del branco, quindi agire per il bene comune (ma come, il “branco” non è sempre inteso in senso negativo, cioè il farsi forza del numero per commettere violenze?), la rana è simbolo di metamorfosi, la chiocciola è associabile alla comunicazione (quest’ultima non so se ce la possono spiegare solo i biologi o se è fantasiosamente legata alla “@”, perché nel secondo caso c’è da ammirare cosa sono capaci di andare a pensare gli artisti) e la rondine rappresenta il viaggio per eccellenza.
Insomma troviamo dei pupazzoni colorati che in quel contesto sembrano totalmente stonati e fuori luogo, li vedresti meglio in un parco divertimenti e non in un parco monumentale. E sono sempre gli stessi animali, con qualche variante (coccodrilli, pinguini, …) che sono stati collocati in altri località e monumenti, per cui si presume che per questo collettivo il sito sia indifferente: non interagiscono con esso, ma lo usano solo per esporre? Boh, vacci a capire.
Ma queste sculture di plastica almeno una funzione utile la svolgono: i turisti/teppisti salgono su di esse anziché su statue e fontane, e ciò è ovviamente preferibile, se proprio devono salire da qualche parte e nessuno glielo impedisce.
Nel parco in genere ci sono anche altre presenze colorate: sono quelli che vanno a correre con tenute fluorescenti o comunque dai colori forti, e si differenziano tra fanatici ben attrezzati e semplici aspiranti infartuati. I pupazzi, a loro volta, si distinguono da loro perché hanno lo sguardo più vispo.
Ma ci sono pur sempre gli animali veri e propri, come i piccioni, in carne ossa e cartilagini, e cacca ovviamente.
I bambini in visita che apprezzassero particolarmente i pupazzoni e volessero continuare a giocarci, possono chiedere ai loro genitori di comprarne una riproduzione. Sono infatti in vendita delle minisculture al prezzo di 10 euro, che viene definito un prezzo simbolico, però va pagato con soldi veri, di metallo o carta e filigrana, non potete cavarvela con qualcosa che simboleggia i 10 euro. Il ricavato servirà per restaurare le Fontane della Reggia. Per cui o prevedono di venderne moltissimissime o si limiteranno a aggiustare qualche rubinetto. Però è stato riprodotto in piccolo solo uno degli animali sguinzagliati nella Reggia. E allora i benefattori simbolici e i bambini quale pupazzo, pardon, scultura potranno portarsi a casa? Un bel lupacchiotto, la rondinella, il simpatico suricato? No, solo la rana schifosa. Eh, quando si dice il marketing!
Forse quello che ho scritto può sembrare eccessivamente critico, diciamo che forse mi ha maldisposto il termine “collettivo”, una parola che mi sta sulle scatole dagli opprimenti anni 70, e che ho sopportato solo per certi gruppi di musicisti e dj’s che andavano a cavallo dei millenni, tipo i Jazzanova, e allora vai con la sigla di chiusura.
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