Link: These Are The Fables
Mese: Maggio 2020
agit-prop
Se qualcuno ha ancora il mito dei caffè letterari dove si riunivano gli artisti i poeti gli scrittori i canzonettisti e i filosofi e sui tavolini componevano le loro cose, dicono che a volte scrivevano sui tovaglioli forse perché per condurre un’adeguata vita bohémien non avevano soldi per la carta, ora con la riapertura dei locali dove si magna e si beve e con il ritorno della movida questo qualcuno può credere che ci sia un rifiorire della vita culturale.
La Zeriba 10 – pastorale canadese
A.C. Newman Neko Case e Dan Bejar hanno dato il loro meglio negli anni zero, sia da soli che nel mutevole e più ampio gruppo The New Pornographers, dal quale ultimamente è uscito Bejar, però negli anni dieci riescono ancora a fare un buon power pop sofisticato, solo che con l’età aumentano i brani lenti e diminuiscono quelli più scattanti, e toccano temi importanti come i cambiamenti climatici e la fame nel mondo, no, un momento, cosa sto scrivendo, più probabile che parlino di ragazze alte e bionde tipo valchirie che ballano in discoteca, poi per l’impegno se ne parla un’altra volta che ora hanno un impegno con queste ragazze, forse ce l’ha pure la brunetta che, sempre nello stesso album Togheter del 2010, inserisce un assolo di chitarra nel brano My Shepherd (il mio Pastore) e così in una maniera o nell’altra per la terza volta finisce in questa rubrica, indovinate chi è.
un’indiscrezione locale
aspetti d’un paesaggio moderno
un’ipotesi sull’origine dei killer
Non so se fosse un metodo pedagogico diffuso anche da altre parti e se si pratichi ancora: mi capitava di vedere che quando qualche bambino iniziava a piangere perché si era fatto male con qualche oggetto o urtando da qualche parte, la madre fingeva di picchiare il colpevole del dolore per punirlo, fosse un oggetto uno spigolo o un muro. E mi viene da pensare che, una volta cresciuti, questi bambini potrebbero essere diventati quei giornalisti che parlano di incrocio killer, strada killer, montagna killer, o potrebbero essere proprio le vittime di questi incolpevoli killer.
Altrove e più altrove
Se uno vuole raccontare una storia di emigrazione deve raccontare una storia triste e con un pistolotto ideologico, non scherziamo, l’argomento è di sicuro richiamo, insomma vende, soprattutto tra il pubblico schierato, ed è oggetto di acceso e ipocrita dibattito politico. E ho l’impressione che ci si buttino anche persone che non hanno vissuto un’esperienza del genere, ma parlano di altri, semmai attenendosi a quello che si dice nel proprio schieramento. Shaun Tan, la mia grande scoperta di questo periodo (qui e qui), è un australiano nato in Australia e l’esperienza dell’emigrazione l’hanno fatta i suoi genitori malesi. Nel 2006 ha pubblicato The Arrival (in Italia L’approdo, Tunué, 2016), per il quale ci sono voluti 4 anni di studi e preparazione, un lungo periodo in cui ha letto libri e ascoltato aneddoti (che per me sono fonti storiche preferibili ai trattati dei professori) e si è documentato anche visivamente con dipinti, foto, cartoline, film (tra cui Ladri di biciclette), incisioni, e ha consultato l’archivio di Ellis Island. Ma quello che ne è uscito non è materiale per politici e sindacalisti, perché è il racconto di un doppio viaggio, affrontato prima da un padre e poi da moglie e figlia, in un luogo fantastico in cui paesaggi architetture e animali sono strambi come solo lui sa immaginarli, e il tutto è disegnato a matita molto dettagliatamente e colorato in grigio e seppia al computer. Si potrebbe definire un racconto senza parole, ma le parole ci sarebbero solo che sono in una lingua immaginaria. In quarta di copertina cartonata ci sono gli entusiastici apprezzamenti di Art Spiegelman, Marjane Satrapi, Craig Thompson e Brian Selznick, e se non vi fidate di me fidatevi di loro e cercate questo libro.

Posto un’immagine meno suggestiva per non fare spoiler visivo.
Il Mito chissà cosa credevamo
Già una volta prendendo spunto da come i media raccontavano le imprese di Usain Bolt che entrava (e usciva) nella Storia e nel Mito o nella Leggenda mi sono chiesto come funzionava la cosa. Poi ecco che stamattina il TG annuncia che il famigerato concerto di De André con la PFM è entrato nel mito. Per chi si fosse scansato quegli anni successe che il noto cantante e traduttore per aggiungere un po’ di orpelli alle sue tristezze musicali volle fare un concerto con la PFM, il più famoso gruppo italiano di quel genere che allora veniva definito con disprezzo rock barocco ma che non era ancora stato debellato, insomma tipo oggi il coronavirus. E non avendo né tempo né intenzione di continuare a seguire il TG ho spento ma ho continuato a chiedermi come funziona questa cosa del mito, che io pensavo riguardasse storie molto importanti fondanti fantastiche e metafisiche. E’ una faccenda burocratica, cioè bisogna raggiungere dei requisiti pubblicati nella Gazzetta Ufficiale? O è un titolo che si può ottenere tramite vie tortuose, tipo un amico al Ministero della Mitologia che può metterci una buona parola? Insomma, incuriosito ho cercato la notizia su internet e ho visto che hanno pubblicato un cofanetto con la registrazione di quel concerto, tutto qui, dicono che l’hanno ritrovato ma non speravamo di averlo perso. Ma non c’è qualche Dio infastidito da questi parvenus del mito che scagli qualche dardo contro i giornalisti?

Se è solo una questione di cofanetti allora i Fall entrarono nel mito già 13 anni fa.
La Zeriba 10 – il Rock e i suoi derivati(vi)
Da cosa deriva tutto questo rock derivativo? Perché tanti giovani si ispirano a musicisti attivi prima che loro nascessero? Li hanno ascoltati con i vinili dei genitori o dei nonni? Questo può dare luogo a nocivi effetti collaterali come le solite tiritere nostalgiche sulla buona musica di una volta e il suono impareggiabile degli ingombranti vinili che tra salti e scrìcchete e scràcchete suonavano molto meglio dei cd o degli mp3 sempre a patto di potersi permettere un costoso impianto. Insomma erano i bei tempi di quando si mangiava roba genuina, tipo confettini colorati con chissà che cosa e formaggini con i punti per il regalo il tutto innaffiato con olio di palma doc, i tempi del ciclismo eroico quando si andava a sensazioni e anche a sostanze che sono andate perdute nel tempo come lacrime dopo le rare positività all’antidoping dell’epoca. Vabbe’, stiamo divagando. Tornando al rock derivativo, forse la risposta è nella copertina di Bottle It In, l’ultimo di Kurt Vile, un’immagine criticata da tutti gli amanti del rock fatto di disgrazie sofferenze morte droghe alcool sigarette voci roche broncopolmoniti con complicanze capelli spettinati polvere di autostrade e tutto l’altro ciarpame di cui la musica non riesce a liberarsi perché tutto ciò è così rassicurante come tutti i luoghi comuni. Dicevo quella copertina: ma come, Kurt Vile è un giovanotto ormai cresciuto, è un adulto, e si fa fotografare con la sua chitarra in mano con l’espressione di un bambino che ha ricevuto un regalo? Eh, perché forse è lì la spiegazione di tutto: il semplice piacere di suonare, senza dover teorizzare niente né spararsi le pose da bohemien fuori tempo massimo peggio di Mareczko alle prime salite del Giro. E cosa succede quando si uniscono due musicisti derivativi già normalmente propensi alle collaborazioni, un Kurt Vile appunto un po’ Velvet Underground un po’ Neil Young un po’ country e un po’ blues e la forse più aggiornata Courtney Barnett un po’, anzi un po’ molto, anni 90? Niente di nuovo ma tutto molto gradevole a sentirsi, la musica su tutto, anche senza vinile.