Nella mia poliedrica ignoranza non so quale concreto beneficio può portare l’ingresso di qualcosa nella Hall Of Fame dell’Unesco. Come saprete, per la candidatura a tale onore è stata preferita la lirica al caffè e la cosa non è stata presa bene, dai napoletani che del caffè hanno fatto un rito e dalla potente lobby dei ristoratori: si sono lamentati i proprietari dei locali e forse pure i prestanome. Qualcuno accusa i membri della simpatica organizzazione di aver esaminato la richiesta in maniera superficiale e sbrigativa perché dovevano andare a prendersi un caffè.
Il rituale del caffè generalmente si ritiene che sia osservato soprattutto dai dipendenti pubblici, che però lo praticano in modalità mordi e fuggi, “mordi” soprattutto se è incluso pure il cornetto, ma quelli che bivaccano sono persone che non hanno niente da fare o progettano affari manovre e traffici, e dimenticatevi il mito dei caffè letterari. Certo che una benedizione dell’Unesco avrebbe potuto zittire i cultori della vergogna col punto esclamativo, le iene e gli altri animali striscianti perché la famosa pausa caffè non sarebbe più vista come un peccato ma universalmente e socialmente accettata e si configurerebbe come tutela e trasmissione alle generazioni future di un patrimonio mondiale dell’umanità, almeno fino alla Bomba prossima ventura.
Se per me le “figure” sono un motivo in più per comprare libri, non è che per i dischi è diverso. Trovai un cd usato di un certo Jack Logan che non avevo mai sentito e non ricordo se lo comprai direttamente o prima mi informai il minimo indispensabile. Jack Logan negli anni 80 disegnava storie a fumetti, tra cui una con Peter Buck nel ruolo di supereroe, e nel contempo scriveva canzoni rock indiamericano che poi, grazie anche all’amicizia con il chitarrista, dagli anni 90 ha iniziato a riversare su dischi di cui disegnava le copertine.
Devo ammettere che quando studiavo, e l’insegnamento della storia è sempre stato incentrato sulle guerre, c’è stato un periodo in cui ammiravo l’abilità battagliera di Garibaldi, un personaggio non molto apprezzato dalle mie parti, gli dedicano le piazze principali ma nessuno va in giro con la sua immagine sulle t-shirt. La sua colpa è di aver combattuto per l’annessione del Sud ai Savoiardi, che qui si usano solo per fare il tiramisù, quando si stava così bene con l’illuminata dinastia dei Borbone, e se si fossero confermati regnanti in carica immagino che il calciatore populista, amico di boss e dittatori, si sarebbe fatto volentieri una foto anche in loro compagnia. Ma tornando a Garibaldi i suoi erano altri tempi e non si può giudicare con i parametri odierni. Oggi di combattenti e strateghi non voglio sentire parlare, le battaglie significano solo morti, ma intravedo titoli e articoli e interesse per i combattenti della guerra slava e per i loro comandanti, chi sono cosa fanno cosa leggono, e più di tutti immagino per il capo in testa che ha difeso il suo popolo e la sua terra prima dall’invasione dei vaccini e poi da quella dei russi. Ma pure lui commette qualche errore strategico. Infatti ha cercato di coinvolgere Israele paragonando quello che succede in Ukraina alla persecuzione degli ebrei finendo per urtare la suscettibilità di quelli, ma lui che è di origini ebree avrebbe dovuto sapere che loro sul genocidio c’hanno il copyright e nessuno, neanche gli armeni, si può permettere di andare in giro a vantarsi di essere perseguitato come accadde con gli ebrei. E poi il presidente combattente avrebbe dovuto comparire in video durante la cerimonia degli Oscar, perché se lo si guarda distrattamente può sembrare il solito militare che va al potere ma lui è stato attore e sceneggiatore. Però all’Academy non si sono messi d’accordo e non se n’è fatto niente, e non se se Zelensky si rende conto che gli è andata bene perché qualcuno avrebbe potuto dire che quella era la prova che in Ukraina non sta succedendo niente ed è tutta un’invenzione americana, e le scene di guerra le girano a Hollywood negli stessi studios dove girarono l’atterraggio sulla luna. E poi non so quale messaggio di pace poteva essere credibile in una serata in cui è volato qualche schiaffone. Tra parentesi anche al regista italiano è andata bene, gli sciovinisti si lamenteranno che non abbia vinto un oscar col suo film che tira in ballo il calciatore populista ma è già tanto che non gli abbiano chiesto indietro quello che gli hanno dato l’altra volta, si erano sbagliati, che male c’era ad ammettere un errore?
I catalani sono altra etnia e non parlano castigliano, per cui la loro corsa non si chiama Vuelta ma Volta e l’edizione di quest’anno terminata ieri ci ha confermato che Almeida è ancora un giovane inaffidabile e che l’olimpico Carapaz è imprevedibile e capace di cose inusitate per ribaltare l’andazzo delle corse, ma poi alla fine ha vinto il colombiano Higuita. Delle rivendicazioni autonomiste della regione non è più pervenuta notizia, e se anche fosse successo qualcosa sarebbe stato coperto dal clamore del covid e della guerra slava. Catalana è anche la cantante Rosalia ma a volte pensavo fosse connazionale di Higuita, o di Kali Uchis per restare alle sue colleghe, e questo perché sì, i critici ne parlavano bene e lei ha sempre collaborato con grossi nomi della musica, ma parlavano di flamenco e figuriamoci se mi metto a sentire una che suona le nacchere come mi veniva da pensare. Poi una mattina stavo sentendo la tivvù uso radio e c’era il solito video splatter di The Weeknd, i suoi video si differenziano per il modo in cui lo uccidono, quella volta c’era una ragazza con un vestito trasparente che lo pugnalava e poi si allontanava girandosi, e vedendo il suo lato b, che trattandosi di musica è un’espressione pertinente, pensai: Ah, questo, cioè no, questa è la famosa Rosalia. Allora dico che bisognerebbe liberarsi dai pregiudizi e non discriminare le cantanti diversamente vestite, e Rosalia in particolare merita l’interesse che ha suscitato perché mica il suo è flamenco tradizionale con le nacchere e i tacchi, no, è influenzato da vari genere e fatto con l’elettronica e già che c’è pure con l’autotune. Ha inciso tre dischi di cui uno appena uscito, e una serie di singoli che non sempre inserisce negli album, ma finora, a differenza degli Smiths, non ha neanche pubblicato quelle antologie che del gruppo di Manchester costituivano almeno metà della discografia. Non ho approfondito la questione testi ma sembrerebbe alternare fierezza femminile, se non addirittura femminista, sesso e richiami all’immaginario modaiolo, ma del resto anche i rappers parlavano di sneakers.
Il mondo è piccolo e la gente di corte vedute non se ne accorge. Chi invece ha una visione, del mondo ovviamente, più ampia qui ci sta stretto. Prendete uno come Putin, la Siberia sembra vasta ma lui al massimo ci si stiracchia le gambe. E pure l’Ucraina giova fino a un certo punto, ma fategli finire questa guerra e vedrete che prima andrà sulla luna a sostituire la bandiera americana con la sua e poi potrà concentrarsi sulla conquista di Marte. Invece nel mondo dello sport vigono ancora i campanilismi e l’idea di gare casalinghe. Però quando oggi Diego Ulissi al G.P. di Larciano lavorava per Capitan Hirschi mi chiedevo quando correrà per vincere se pure nella sua Toscana fa il gregario. Ma lui corre per una squadra ricca in cui conta la vittoria e non gli eventuali sentimentalismi. Poi le vie del ciclismo sono insondabili e ha vinto proprio Ulissi, completando la collezione di corse toscane, alcune nel frattempo defunte, cui manca solo la corsa sterrata di Siena ma quella non fa per lui. Eppure, come se fosse un personaggio cantato da Caterina Bueno, per vincere la più importante classica della sua carriera è dovuto andare fino nel lontano Canada, ma non è emigrato perché poi è tornato. Ormai si corre dappertutto e ci sono corse importanti anche fuori dall’Europa ma il fatto che il ciclismo sia, come si dice, globalizzato non piace a tutti e c’è chi rimpiange il piccolo mondo antico in cui il ciclismo era una faccenda tra 5 o 6 paesi europei. Oggi per esempio c’è stato un evento storico, la prima vittoria di un africano in una classica. Da oltre una decina di anni ci sono corridori africani promettenti che vengono a correre in Europa però non fanno molto. L’eritreo Biniam Girmay, che da juniores aveva battuto il fenomeno Evenepoel, poteva continuare questa breve tradizione perché mentre i giovani degli altri paesi vengono sempre più precocemente ingaggiati da grandi squadre lui era passato con una squadraccia marsigliese. Poi per sua fortuna fu preso dalla Intermarché prima ancora che il marsigliese chiudesse bottega e ha iniziato a piazzarsi e anche a vincere. Pochi giorni fa a Het Nieuwsblad aveva detto che vuole vincere tutto e sembrava eccessivo e incosciente entusiasmo giovanile, o peggio mancanza di cultura ciclistica, e invece tanto per gradire ha vinto la Gent-Wevelgem. Io so non perché vado a leggere i commenti dei lettori alle notizie di ciclismo, forse per farmi un’idea del livello del (de)genere umano, e a questa notizia, tra vari commenti positivi, c’era un tipo che diceva che gli fa schifo questo ciclismo dove invece che partecipare a corse tradizionali, oggi decadute, si preferisce correre nel deserto o nella giungla. Il deserto lo vediamo ogni anno tra gennaio e febbraio ma la giungla? Sì, aspetta, mi ricordo le prime edizioni del Tour di Langkawi, che sarebbe la Malesia, partecipava Gianni Bugno a fine carriera e lui che è uomo di mondo disse che voleva ritornare a correrci. Ma poi per queste persone nostalgiche, che tra l’altro ignorano che in Eritrea la pratica del ciclismo risale al periodo coloniale e meglio così altrimenti qualcuno ne approfitta per dire che Lui faceva anche cose buone, dicevo per queste persone quando si tentò di riesumare il Giro del Lazio lo chiamarono Roma Maxima ma successe che vinse un Gallo di origini cartaginesi.
Da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso: Ulissi che vince, Girmay che prima vince e poi viene complimentato dall’altro emigrante Pasqualon, l’arrivo della Gent femminile vinta da Elisa Balsamo che ci ha preso gusto e forse per questo non l’hanno fatta salire sul palco di Sanremo: già che c’era sarebbe stata capace di vincere pure il Festival.
Negli ultimi giorni noto una diminuzione dei post pubblicati, preceduta da un periodo di articoli tendenti al depresso. Non so se è solo una coincidenza, se sono aumentati i casi di covid tra i bloggers, o i casi di semplici influenze e malanni stagionali come quelli che stanno decimando le squadre ciclistiche, o al contrario la bella stagione dopo due anni di clausura spinge molti ad uscire abbandonando il mondo virtuale. O sarà colpa della guerra, ma in tal caso non è il caso, perché in questo conflitto con ambizioni mondiali i due capi belligeranti si devono impegnare molto per uguagliare il numero di morti della guerra civile, si fa per dire, nel Rwanda che pure lasciò indifferente l’occidente. Io comunque resto qua, scrivo disegno metto musica e faccio quello che mi piace, al limite parlo da solo che a una certa età dicono è normale.
Come molti paesi ex sovietici anche la Bielorussia ha buoni ciclisti, il più famoso dei quali è stato Vasil Kiryienka, gregarione da tiro ma anche vincitore di titoli a cronometro inclusi i mondiali e di tappe. Però quando è venuto a correre all’ovest la prima cosa che abbiamo saputo di lui è che tra i suoi amici e parenti c’è stata una strage per le conseguenze del disastro di Chernobyl, e se non si fosse rivelato un grande corridore sarebbe stato ricordato soprattutto per quel tragico motivo. Pure Aleksandr Kuschynski ha rischiato di essere ricordato per un fatto negativo, l’aver perso di poco una Gent-Wevelgem, ma ci pensa la Zeriba a ricordarlo per il giusto motivo, cioè una cosa anche peggiore. Kuschynski in carriera ha vinto poche gare e poco importanti, ma come gregario è stato ingaggiato da grosse squadre come la Liquigas e la Katusha ai tempi di Purito. Quando alla fine del 2014 non fu confermato, fu coinvolto nella creazione di una formazione continental bielorussa, il Minsk Cycling Club, in cui era corridore e direttore sportivo. E, almeno a parole, l’obiettivo principale di una piccola squadra dovrebbe essere la crescita di giovani talenti, e ben venga quello vincente a patto che non vinca la corsa sbagliata. Poi, dato che nessuno vuole passare per un gretto sfruttatore di ragazzi, i team manager delle squadre giovanili dicono che i ragazzi devono terminare gli studi, e allo stesso modo si presume che quelli delle squadre con ciclisti già cresciuti vaccinati e diplomati insegnino loro a comportarsi, a essere corretti ed educati e a rispettare le persone anziane, vado per deduzione ma potrei pure dubitarne. Però diciamo che quella che in termini manageriali si chiama “mission” rimane la vittoria e un ciclista ancora giovane pensa che oltre a promettere è meglio anche quagliare, e alla bisogna va bene anche una gara inter nos come il campionato nazionale. E quel campionato bielorusso del 2015 Kuschynski forse pensava che gli spettasse di diritto per il suo ruolo e la sua statura di emigrante che ha fatto quasi fortuna all’estero. Ma nella squadra di Kuschynski il giovane Andrei Krasilnikau decise che era arrivato il momento di concretizzare mettendo in cascina o in un silos quel titolo nazionale. Kuschynski si incazzò come una bestia, c’è chi ci tiene molto al campionato nazionale e volendo si è visto di peggio in UK se non altro perché trattavasi di madre e figlia in un episodio curioso che è nel bene e nel male, più nel male, parte della storia del ciclismo femminile. Ma tornando al vecchio Aleksandr, in virtù dei poteri conferitigli il ciclista-diesse strappò la bici al giovane irriguardoso licenziandolo in tronco e per un anno non ci sarebbe stata la maglia con i colori nazionali portata in giro per il mondo. Negli anni successivi Krasilnikau corse in America e finì per ritirarsi prima dei 30 anni, Kuschynski invece diresse un po’ qua e un po’ là, tra Gazprom e Minsk, mai accreditato sul sito dell’UCI che poi con la fatwa contro russi e bielorussi l’ha fermato qualunque cosa facesse.
L’arrivo della Gent-Wevelgem 2009 vinta da Edvald Boasson Hagen
Come ben sanno gli appassionati che tifano per gli azzurri dovunque (chiamateli come preferite: sciovinisti, patriottici o teste di rapa), ieri è stata una giornata memorabile per lo sport italiano. Fino a una certa ora del pomeriggio una delle poche certezze della vita, oltre alla morte, era il fatto che battere la muscolosa Lorena Wiebes in volata era quasi impossibile. Ma è un periodo in cui crolla tutto, crollano i valori, soprattutto il rublo, crollano le certezze, ed è successo che si preparava la volata finale della Brugge-De Panne, corsa del World Tour, e la campionessa del mondo Elisa Balsamo è partita come un fulmine, forse merito della pratica della pista, e Lorena Wiebes non è riuscita neanche a ridurre un poco lo svantaggio. Intervistata a fine corsa, la ragazza che andò al festival di Sanremo ha detto delle cose sorprendenti che però in Italia nessuno ha riportato, e meno male che c’è Het Nieuwsblad. Insomma Elisa, la ragazza sempre sorridente, che corre forte, vince, studia, suona il piano, tanto una brava ragazza, ha detto che ama il caos delle corse belghe. E ieri, tra ragazze finite in un’aiuola spartitraffico o cadute quando dovevano lanciare la volata, come la fortunella Anna Trevisi nota anche per essere stata multata in Italia mentre si allenava, di caos ce n’è stato a soddisfazione.
Un ritornello musicale sempre ai vertici delle classifiche è quello che fa: Le note sono solo 7, non si può inventare più niente di nuovo, o forse questo è solo un luogo comune di comodo. In queste condizioni con un solo numero di una rivista si possono scoprire diversi ritorni. Nella puntata scorsa parlavo del jangle, basta un cambio di vocale ed ecco che ritorna pure la jungle. Sherelle è una dj e produttrice londinese che ha pure cofondato l’etichetta Hooversound Records, e l’anno scorso per la Fabric Records ha pubblicato Fabric Presents Sherelle, un disco remixone con affogati dentro ben 27 brani di artisti giovani o veterani e in gran parte orientati al drum’n’bass. Si parte con l’esperto Cloud9 che sembra i Prodigy suonati da Roni Size, poi Tim Repaer presente con due pezzi, e per un po’ l’ascolto si regge, ma il problema di questo flusso ininterrotto di musiche veloci, oltre all’effetto nostalgia perché ora ricorda Goldie ora i FSOL, è che, per chi vuole solo ascoltare e non ballare, dopo un po’ rischia di stancare, tanto più che anche la durata del disco riporta a quegli anni in cui si doveva riempre il cd fino all’orlo.
Non so se vi è mai capitato di aprire un libro per leggerlo ma imbattervi in una lunga prefazione o introduzione o entrambe che vi fanno passare la voglia. In questo caso il lettore potrebbe appellarsi ai dieci diritti del lettore di Daniel Pennac, cosa che di questo scrittore apprezzo più di tutto il resto che ho letto, e saltare a piè e occhi pari la sezione sgradita, perché se si possono saltare le pagine ciò deve valere a maggior ragione se esse sono scritte da penna intrusa, e va bene pure se come corollario dei dieci diritti, importa il risultato. A volte una veloce noterella critica o quel minimo di informazioni necessarie alla lettura ci stanno bene, come fanno in genere le case editrici che preferisco, Quodlibet o Adelphi, e Iperborea che spesso inserisce una postfazione, evitando anche il rischio di spoiler che non è da escludere. Mentre gli Oscar hanno una lunga cronologia dell’autore per ogni volume dello stesso, e per quanti titoli avete dello stesso scrittore tante cronologie tutte uguali vi troverete. Poi ci sono i curatori che in pratica ne approfittano per scrivere dei saggi critici, pure con le note, una cosa che starebbe bene nelle riviste o nei siti specialistici, oppure da pubblicare come volume a sé stante, e vediamo poi quanti lo comprano. Quando poi si vuole ricavare un libretto da un piccolo raccontino o da un discorso, tipo quelli come ricevuta di un premio nobel perché in quei casi pare che non basta la firma su un modulo, è inevitabile che per raggiungere un numero minimo o decente di pagine ci voglia un preambolo che superi in lunghezza l’operina stessa. Ma fin qui potrebbe essere questione di gusti, però c’è anche un problema pratico, soprattutto per chi ha troppi (è un concetto relativo) libri con conseguenti problemi di tempo da dedicare alla lettura e di spazio per conservare i volumi. Quanto tempo si perde a leggere le prefazioni e le introduzioni che potrebbe essere dedicato ad altro? Quanto spazio occupano in una libreria? Quanta carta è stata utilizzata, o sprecata se preferite? Quanti alberi sono stati abbattuti per le manie di protagonismo dei prefatori e introduttori?