La Gatta Chikova

Oggi vi propongo una bella favola misogina tratta dal vasto repertorio della grande tradizione favolistica dei paesi slavi.

C’era una volta un contadino di nome Kirill che rimase vedovo ancora giovane. La moglie Methodia aveva voluto un gatto e alla sua morte Kirill volle tenerlo perché gli ricordava la defunta, essendo grasso e vorace come lei, che infatti si era strozzata mangiando. Ma col passare del tempo Kirill iniziò a stufarsi di questo gatto che non smetteva mai di mangiare, avido che sembrava uno zar, e allora lo infilò in un sacco e lo portò in un bosco, dove lo liberò dicendogli: Ecco, ora fai lo zar della foresta. Lì il gatto trovò ugualmente da mangiare ma non abbastanza. Poi un giorno passò di lì una gatta che cercava un marito, ma non uno qualunque, uno importante, e si presentò: Ciao, io sono la gatta Chikova, e tu chi sei? Lui convinto di quello che aveva detto Kirill rispose: Io sono Soryan, lo zar della foresta. La gatta pensò: Accidenti, è lo zar. Questa è l’occasione della mia vita e non devo farmela scappare. E iniziò a dire che uno zar doveva avere degli eredi e che casualmente lei aveva l’apparato riproduttivo in esclusiva, come avrebbero potuto confermare anche le altre gatte, che infatti quando la vedevano così commentavano: Quella sembra che ce l’ha solo lei. Lo zar, cioè il gatto Soryan, acconsentì e sposò la gatta Chikova senza tante cerimonie perché tra gli animali non si usa. Il giorno dopo i due sposini si svegliarono con appetito ma con niente da mangiare e Soryan disse che si sarebbe aspettato che gli altri animali avessero omaggiato i regnanti con doni, e la gatta concordò: E’ davvero disdicevole, ma ora ci penso io. Chikova si incamminò per il bosco e a ogni animale che incontrava diceva di essere la zarina e che lo zar si attendeva di ricevere doni dai suoi sudditi, altrimenti avrebbe potuto offendersi e condannare tutti a morte, e lo disse allo scoiattolo e alla gazza, alla volpe e al gufo, poi anche al lupo Drago che in verità avrebbe voluto sbranarsela ma a quelle parole si trattenne. Lo stesso accade con l’orso Yago. Qualche animale ritenne prudente portare un dono allo zar, e anche Drago si incamminò più che altro perché incuriosito e incontrò Yago che aveva pensato la stessa cosa, volevano vedere chi era questo zar, doveva trattarsi di una bestia importante e potente. Drago diceva: Avrà almeno 100 denti. Yago rispondeva: Sarà enorme come un olmo. Ma quando arrivarono nei pressi del covo del gatto e sentirono Chikova chiamare quel grasso ma comunque piccolo animale “mio Zar” i due si guardarono sollevati e all’unisono dissero: E questo coso sarebbe la bestia potente e feroce? Ma ora ci divertiremo un po’. E afferrato il gatto iniziarono a usarlo come palla, uno lo passava all’altro che lo afferrava anche con le unghie e poi lo tirava al compagno e andarono avanti così tutto il pomeriggio, poi quando iniziò a imbrunire e si era fatta ora di tornare ognuno alla propria tana, l’orso Yago afferrò il gatto palla e lo scagliò verso le alte fronde di una quercia dove rimase impigliato in un ramo. Quando all’alba del giorno dopo riuscì a liberarsi e scese dall’albero, Soryan trovò Chikova che lo guardava delusa e che gli disse: Ma lo sai che in natura la femmina si accoppia col maschio che assicura la prosecuzione della specie? E tu invece guarda come sei ridotto. Come potresti un giorno difendere i tuoi figli se malauguratamente ne avessi? Mi cercherò un altro maschio, beninteso non lo faccio per me ma sempre per la prosecuzione della specie. Addio. La gatta Chikova uscì allora dal bosco per cercare fortuna e solo mezzora dopo fu catturata da un’aquila. Il gatto Soryan quando si riprese imparò a procurarsi il cibo da solo, a stare sempre in guardia e imparò anche che non era vero che la gatta Chikova era l’unica ad avere l’apparato riproduttivo, ed ebbe tanti figli di cui un paio sopravvissero felici e contenti.

Un racconto poetico

Bisogna avere umiltà in tutte le cose. Invece di criticare gli altri bisogna imparare da loro. Ad esempio nel campo della scrittura, ascoltando lo scrittore parlante al Giro d’Italia e sentendo e leggendo gli scritti più apprezzati dal pubblico, credo di aver capito che per scrivere un testo, in prosa o in versi, che abbia valore poetico, lirico, occorrono alcuni elementi che sono naturalmente poetici: i fiori meglio se uno, il mare, il tramonto meglio se sul mare, i sogni, soprattutto i sogni di bambino che poi si realizzano, il volo e i gabbiani. Allora ho pensato di provare a scrivere un breve racconto che contenga tutti questi elementi e vedere se viene bello poetico.

E’ sabato ed è una giornata di fine primavera che è quasi già estate e allora decidiamo di andare al mare, partiamo di mattina per passarci tutta la giornata. In questo periodo molti sono impegnati con i matrimoni e le comunioni e non possono venire al mare e quindi è quasi deserto. A Rosmarina piace più correre sulla spiaggia che farsi il bagno, però io le consiglio di non togliersi le scarpe, ma lei niente, dice che sulla spiaggia bisogna correre a piedi nudi, c’è più gusto, va bene, ma c’è pure tanta spazzatura, e dopo pochi metri di corsa caccia un grido, ha centrato dei cocci di bottiglia, una volta i cocci si mettevano sui muri degli orti ma ora gli orti non ci sono più e li buttano in spiaggia. Ci vuole tempo per togliere i pezzetti di vetro dal piede e poi per medicarlo, e meno male che, dopo una precedente esperienza simile, abbiamo portato il kit del pronto soccorso. Ecco, ho fatto proprio un bel lavoro, potrei fare l’infermiere se c’avessi lo stomaco, ma a proposito di stomaco nella concitazione del momento è gocciolato il disinfettante sui panini che ormai si possono solo buttare, e tra una cosa e l’altra la mattinata è già andata e si è fatta ora di pranzo. Poco male, siamo al mare, approfittiamone una volta tanto per una bella frittura di pesce freschissimo. In passato non potevamo permettercelo ma adesso neanche, però non abbiamo alternative, e chiediamo informazioni a qualcuno del posto se c’è una trattoria. Ci consigliano “Lo Scorfano Orfano”, ci dicono che ha tre stelle, ma non costerà molto? Ma no, è solo un modo per riconoscerlo: ha tre stelle marine disegnate sul muro vicino all’ingresso. Chiediamo pure se c’è una scorciatoia perché Rosmarina zoppica e meno cammina meglio è. E con la scorciatoia passiamo per un vicoletto e arriviamo al ristorante da dietro, passando vicino al bidone della spazzatura, in cui notiamo delle confezioni di surgelati Frodest, beh, qualcosa dobbiamo pur mangiare. Ci siamo solo noi e un cliente in un angolo che scrive sui tovagliolini di carta. Il proprietario si presenta come “Il patrone” e ci fa sedere con vista sul mare, ma all’improvviso vedo pure le stelle, e non sono né quelle della guida michelin né quelle dipinte sul locale: un bambino mi ha dato un cazzotto sul braccio e mostrandomi il pugno dice di essere Iron Fist. Accorre subito la madre che si presenta come “la patrona” e dice: “Scusatelo mio figlio, quello a volte la notte si sogna di essere un supereroe e poi per tutto il giorno dopo ripete le cose che fanno nei giornaletti, sono ragazzi”. Interessante, il giorno in cui sognerà di essere Superman e spiccherà il volo dal sesto piano di quell’albergo di fronte spero di essere nei paraggi, non vorrei perdermelo. Il tipo in fondo al locale alza lo sguardo dai tovaglioli e rivolgendosi a noi, almeno credo, esclama: “Eh, i sogni dei bambini!” E poi, come se la cosa gli avesse causato un’ispirazione, riprende a scrivere e la patrona ci spiega: “Quello è un poeto, c’ha una testa così. Scrive sui tovaglioli perché dice che così aumenta l’importanza delle sue poesie.” Sapevo i caffè letterari, ma le trattorie di pesce letterarie me l’ero perse. Rosmarina sembra preoccupata, sicuramente starà pensando a quello che ci costerà questo pranzetto, infatti guarda il mare e l’orizzonte e inizia a lamentarsi del prezzo degli ortaggi, ed è così presa da questi pensieri che quando si avvicina un indiano con una rosa per vendercela, anche perché siamo gli unici nel locale, lei sovrappensiero gli chiede: “Hai i fiori di zucca? A quanto li fai, che vorrei farci una frittatina?” Ma l’indiano non capisce la domanda e offeso se ne va. Per fortuna dopo poco arriva il pesce, ma praticamente in contemporanea iniziano a svolazzare dei gabbiani, e il patrone ci rassicura che ci pensa il gatto Gionatàn. Infatti i gabbiani cercano di planare sulla nostra tavola ma il gatto si alza sulle zampe posteriori e cerca di artigliarli dando vita a una lotta che sarebbe spettacolare se solo si svolgesse sull’altra sponda dell’oceano. Il bambino sognatore guarda orgoglioso il suo gattone e ci rivela che è stato lui, il gatto, che ha insegnato a volare a quei gabbiani. Se lo dice un supereroe non lo metto in dubbio, ma mi sa che il gatto poi si aspettava di essere pagato, vista l’acrimonia con cui cerca di colpire gli uccelli. Però ho detto “acrimonia”, io non l’avevo mai detto, mai neanche pensato, sarò stato contagiato da quel poeta in fondo, che non so se è un poeta maledetto ma in ogni caso lo maledico io e non se ne parli più. Finiamo di mangiare, il patrone ci porta il conto, guardo la cifra e commento solo: “Però, è salato.” E lui un po’ si arrabbia ma non con noi e ad alta voce: “Io ce lo dico sempre a mògliema di starci accorta con il sale che aumenta la pressione e se ce ne mette poco sparagnamo pure noi.” Senza neanche la possibilità di lamentarci perché i patroni manco ci capirebbero, paghiamo e usciamo, il sole ormai sta tramontando, bello ma si è fatta ora di tornare. Ci avviamo verso il paese dove abbiamo lasciato l’auto, piano perché lei zoppica ancora, le chiedo se ha notato che a un certo punto i gabbiani sono spariti, si vede che il gatto a qualcosa è servito. Beh, se è stato merito del gatto non lo so, ma arrivati all’auto tornerei indietro per farmelo prestare se la trattoria non fosse così lontana, perché ora vediamo dove sono volati i gabbiani: due sul tetto della nostra auto e uno sul cofano.

Eh, che ne dite? E’ venuto poetico?

Il mostro della laguna rossa

Bruno Nereo e Neri erano tre ragazzini che si divertivano ad avere paura. Si avventuravano in luoghi in cui i genitori gli vietavano di andare ma ne tornavano sempre impauriti e contenti. Il posto che preferivano era la laguna nera che faceva paura già solo dal nome, e meno male che aveva quel nome lì perché per il resto non c’era niente di che e la fantasia bambinesca sopperiva fino a un certo punto. Poi arrivarono quei tre anni in cui fu vietato uscire di casa e andare in giro tanto meno in gruppo. Quando la paura dell’epidemia finì, i tre, diventati nel frattempo più grandi e più paurosi perché più consapevoli delle tremende cose della vita, pensarono subito di ritornare alla palude. Ma quando giunsero sul posto ebbero una visione orribile e pensarono di essersi sbagliati, forse dopo tutto quel tempo avevano dimenticato la strada ed erano capitati in un altra laguna. Però, a guardare meglio, un cartello che ricordavano bene e un paio di alberi dalla forma particolare e inquietante gli confermarono di essere nel posto giusto, solo che quel bacino era diventato rossastro. Mentre si guardavano intorno cercando di capire cosa fosse successo passò di lì un pescatore e gli chiesero spiegazioni. Il pescatore gli raccontò che a poche centinaia di metri avevano aperto una fabbrica di merendine, le Capròn quelle della pubblicità in televisione, e scaricavano nella laguna residui e liquami, soprattutto i coloranti per fare il rosso della ciliegia e dei frutti di bosco, poi gli mostrò i branzini e un’anguilla che aveva pescato e anche quelli erano diventati rossi, e a mangiarli – disse l’uomo – erano dolciastri. I ragazzi a sentire quella storia si stavano annoiando ma per fortuna all’improvviso apparve sull’acqua una creatura mostruosa, un essere deforme che non somigliava a nessun animale conosciuto e si sollevava dall’acqua anche se di poco. E i tre ragazzi entusiasti e terrorizzati gridavano che era un fantasma, forse di qualcuno morto affogato. “Casomai – rispose il pescatore – strafogato, di merendine. Ma quale fantasma? Quella è una cicogna, si fermò qui e gli operai della fabbrica le buttavano da mangiare le merendine che il padrone gli regalava come benefit ma che loro, ben sapendo cosa contenevano, si guardavano bene dal mangiare. Così la cicogna in poco tempo ingrassò e quando venne il momento non riuscì più ad alzarsi in volo per migrare ed è rimasta qui, ed è ingrassata sempre di più e, tra schifezze che mangia e acqua inquinata, è diventata pure rossa”. Così i ragazzi tornarono a casa delusi e in seguiti preferirono avventurarsi in altri luoghi.

Poi un pomeriggio, mentre facevano merenda con le brioscine Capròn, videro sulla confezione il QR code per partecipare al grande concorso in cui si poteva vincere il peluche della mascotte delle merendine, e quella mascotte era un cicogna rossa.

Il piragno

-Se pensate che quel virus che si è diffuso in tutto il mondo non sia stato prodotto in laboratorio, e che questa tesi sia solo una fantasia cospirazionista, siete degli ingenui. Immagino che sia una cosa difficile da accettare, cioè che l’uomo sia capace di tanto, ma non avete idea di cosa si sperimenti in certi laboratori, le cui attività sono note solo in piccola parte. Date retta a me che in uno di quei laboratori ci lavoro e per questo voglio mantenere l’anonimato…

-Dottor Facondio, può venire un attimo?

-(Shhh, deficiente) … ehm… Scusate l’interruzione, gente di passaggio che cerca qualcuno, non so chi. Dicevo, per fortuna molte ricerche orribili falliscono proprio perché troppo azzardate se non assurde, o a volte semplicemente per qualche evento che non è il caso di definire “sfortunato”. Ad esempio, un giorno un biologo provò a modificare un ragno con il gene di un pesce piranha ottenendo un piccolo mostro con sei zampe soltanto, due corna, una coda e due denti. L’essere che venne chiamato “piragno” si mostrò molto aggressivo ma meno abile nel tessere una tela, e sterminava tutti gli insetti nei paraggi. Il biologo sembrava molto soddisfatto del risultato ma poi accadde che un giorno la moglie andò a trovarlo in laboratorio e, nonostante il marito le avesse raccomandato di non toccare niente, quando si accorse di quello strano ragno pensò che fosse solo conseguenza di scarsa pulizia, così rimosse la ragnatela e uccise il piragno sul cui cadavere infierirono le mosche, prima di essere abbatute dalla signora a colpi di rotocalco. Quando il biologo tornò…

-Dottor Facondio, insomma, vuol venire un attimo? E’ suo quel panino con i gamberoni che si è arrampicato sullo scaffale?

(Tu guarda uno cosa si deve inventare per giustificare un disegnino e non tenerlo chiuso da qualche parte)

Racconto sfuso – Il castello dei festini incrociati

Si può ben dire che il Contino Giocondo Innocentis De Ninnolis abbia portato a termine il lavoro iniziato dal padre. Il Conte Betto infatti era un giocatore d’azzardo tanto accanito quanto sfortunato: al tavolo da gioco aveva perduto la tenuta di Camposuino, la Paperaia, i gioielli della defunta Contessa, alcuni titoli e la culotte autografata della soubrette Antoinette La Toilette. Delle residue ricchezze che ereditò, il figlio dilapidò quasi tutto, vittima dell’alcool, del gioco e delle donne. Giocondo infatti era ossessionato dall’igiene, aveva una fobia per microbi e virus e per questo faceva un uso esagerato di soluzioni alcooliche che finivano per erodergli le finanze e le mani. Poi era un patito e collezionista di giocattoli, da quelli ottocenteschi a quelli elettronici, ne comprava alle fiere e su internet, e li accumulava nelle segrete del castello di famiglia. Infine le donne, anzi la donna, la Baronetta Selvaggina Coccarda De Lusis, conosciuta a un convegno dell’Associazione Giovani Nobili. Giocondo la corteggiava, la invitava al castello e le faceva proposte equivocabili, perché, come quel cavallino che aveva comprato da un bar fallito, le chiedeva: Vieni a giocare con me? E quando lei accettava non immaginava che l’attendeva una serata con la playstation. In realtà Selvaggina si divertiva in compagnia di Giocondo, al punto che il Contino pensò che ci fossero i presupposti per poterle chiedere di sposarlo. Lei arrossì perché non se l’aspettava e rispose con un secco no, al che lui, altrettanto sorpreso, le chiese il motivo del rifiuto: Voi donne dite sempre che vi piacciono gli uomini che vi fanno ridere. E lei, non volendo mortificarlo, rispose: Ma tu sei scemo in testa! Secondo te ci sposiamo e poi ci facciamo quattro risate. Ma non lo sai che in natura la femmina si accoppia sempre con il maschio più forte, quello che assicura la prosecuzione della specie? E questo tradotto in moneta corrente significa l’uomo che c’ha la grana. Tu invece c’hai i giocattoli e questo castello che cade a pezzi. Addio senza rancore. E così Giocondo rimase solo in quel castello, senza soldi, senza compagnia e senza rancore. Ed era invecchiato di colpo, non gli interessavano più i giochi e neanche l’igiene estrema, ora l’unica sua preoccupazione era quella di poter vivere senza ricorrere alla fastidiosa soluzione adottata da tutti, o quasi tutti, insomma da alcuni, cioè lavorare. A tale scopo ricavò una somma ingente, che non avrebbe più dilapidato in giochi e soluzioni alcoliche, dalla vendita del castello alla Locascio Location, una start up di giovani tamarri che sapevano alcune parole inglesi (comprese “start up”) e si occupavano di organizzazione di eventi. Il castello era molto grande, una parte fu trasformata in un locale così ampio da poter ospitare anche due eventi contemporaneamente, e la parte più vecchia e più lontana dal parcheggio fu lasciata com’era perché rimodernare tutto sarebbe costato troppo, ma i proprietari si ripromettevano di farlo se avessero avuto successo e soprattutto fondi statali. Giocondo per iniziare una nuova vita pensò di darsi allo sport, provò quelli praticati dai suoi amici nobili ma scartò subito polo e dressage perché montare a cavallo era già troppa fatica, e allora optò per il canottaggio iscrivendosi al Circolo Raro Nantes. Lì capì subito quale era l’armo che gli si confaceva: l’otto con, lui era “con”. Alla fine della stagione fu organizzata la tradizionale cena sociale con la partecipazione di tutti gli iscritti e, tra i tanti locali pure troppi, il Presidente scelse il Royal Low Cash. Gli invitati seguirono le indicazioni di Magna Maps, l’app per mangioni erranti, e arrivati a destinazione scoprirono prima che il locale era proprio il castello appartenuto a Giocondo e poi che il nome era fuorviante in quanto era solo una specie di anglicizzazzione di quello della ditta e non si riferiva ai prezzi. Ma non era il momento per le tristezze, bisognava festeggiare e divertirsi. La serata procedeva bene ma un certo punto si iniziarono a sentire urla e risate sguaiate, poi si sentì anche una voce lagnosa che cantava una canzone cacofonica, qualcuno chiese notizie a un cameriere che anche con una punta di orgoglio, come a sentirsi parte di un evento straordinario, rispose che c’era il matrimonio di Don Maddaleno Capasanta con la Baronetta De Lusis. Giocondo commentò: E così la bella Baronetta ha trovato un marito ricco e potente per il nobile fine della prosecuzione della specie: che specie di prosecuzione! Infatti Capasanta era il boss del mercato ittico e aveva scelto quella location fuori mano per evitare brutte sorprese. Qualche canottiere sbirciò nella sala per curiosare ma si ritrasse subito perché a cantare c’era la star del neomelodico Ariello Scannacefalo, sembrava ieri che aveva esordito a 12 anni con l’album “Guaglione prodiggio” e invece ora pareva un giovane invecchiato presto e male ed era già arrivato al quarantunesimo disco, intitolato solo “41” con grande sfoggio di semplicità, disco che aveva avuto così successo che ne era uscita pure la versione deluxe intitolata “41bis”. Il boss e gli invitati inoltre, accaldati eccitati e avvinazzati, si erano messi comodi togliendosi cravatta giacca e pure camicia e restando in canottiera. I raro nantes non ebbero neanche il tempo di tornare a sedere che iniziarono strilli e litigi tra i bambini della festa confinante, i quali a un certo punto iniziarono a rincorrersi sconfinando nell’area dei nobili e urtando invitati e camerieri, in particolare causando la caduta di quello che portava la torta con panna che finì in faccia al Bisconte Castore Polluce di Scilla e Cariddi. Visto che il personale non osava invitare i commensali degli sposi a contenersi e trattenere i bambini, i nobili si mossero personalmente per lamentarsi di tutto quel chiasso ma furono accolti in malo modo con strafottenza con pernacchie e con quelle parole che vengono definite “irripetibili” ma erroneamente perché i presenti in canottiera le ripetevano eccome e più volte. Insomma stavano per fronteggiarsi canottieri e canottiere e venire alle mani quando spuntarono alcuni revolver, e in quel momento Giocondo ebbe l’intuizione di invitare i suoi sodali a scappare dietro di lui. Non si trattava di una vera e propria fuga, Giocondo aveva notato che solo una metà del castello era stata ristrutturata e attirò tutti nella parte rimasta intatta. I canottieri riuscivano a correre più veloci perché più atletici mentre gli inseguitori erano lenti e goffi a causa dei panzoni e, quando i secondi furono al centro di un ampio salone, Giocondo tirò una leva segreta nascosta in un posto segreto e si aprì una botola segreta nel pavimento in cui gli inseguitori precipitarono come sacchi di patate e si sfracellarono su un pavimento polveroso rompendosi almeno un paio di arti cadauno. Quando arrivarono polizia carabinieri e ambulanze, che alla fine i ristoratori erano stati costretti a chiamare di malavoglia, gli agenti raccolsero i feriti e le testimonianze e già che c’erano rilevarono varie infrazioni alla normativa igienico-sanitaria contributiva e fiscale dello stesso locale. Per cui tra queste irregolarità e le denunce incrociate per minacce lesioni eccesso di legittima difesa danni materiali e morali e tutto quello che la fantasia degli avvocati poteva suggerire, tutti i coinvolti ebbero un bel po’ da fare negli anni seguenti e i loro legali vissero felici e contenti.

Racconto sfuso – Sharada, una storia senza tempo.

In un paese perso nella Persia viveva il sultano Shabandelmaz che aveva due figli. Prima di morire il vecchio sultano, secondo le tradizioni, al figlio maggiore Shagurat lasciò il trono e al minore Shoperat aprì una partita iva in un altro paese. Shagurat sposò Shegadisaudadji, una fanciulla bellissima ma la cui carnagione scura lasciava perplesso lo sposo che le chiedeva: “Non vorrei che tu mi ingannassi. Dimmi la verità, sei quasi nera, sei davvero persiana? e lei rispondeva: “Certo. E poi secondo te di che colore dovrebbero essere le persiane?” “Verde – rispondeva Shagurat – cioè no, che mi fai dire!?” Un giorno Shagurat partì con il suo seguito per una visita ufficiale in un sultanato confinante, Shegadisaudadji da dietro le persiane, quelle verdi, si assicurò che fosse partito, però dopo aver percorso poche miglia Shagurat si accorse di aver dimenticato una cosa indispensabile nelle missioni diplomatiche, la scimitarra, e tornò indietro a prenderla. Ma rientrato nel suo palazzo trovò una spiacevole sorpresa: Shegadisaudadji ignuda cantava Meu Amigo Sharli e faceva il trenino con dietro sette schiavi neri e nudi anch’essi. A quella vista Shagurat andò a cercare la scimitarra, tornò nel salone delle feste e mozzò il capo alla moglie e tutto quello che capitava agli schiavi. Poi tornò alla sua missione diplomatica così turbato e arrabbiato che per poco non ci scappava pure una guerra con l’altro paese.

In seguito Shagurat decise di fare visita al fratello per vedere come procedeva il suo matrimonio. Arrivato alla dimora di Shoperat non lo trovò perché era al bar per uno sprizzino. Le differenze di età e nelle esperienze della vita avevano reso molto diversi i fratelli, ma ritrovatisi al bancone del bar si abbracciarono e scambiarono due chiacchiere, e a un certo punto Shagurat chiese al fratello dov’era sua moglie e Shoperat rispose: “Chi, Shubbadù? Boh, sarà nell’altra sala a twerkare con qualcuno.” Infatti Shagurat dando un’occhiata nella saletta attigua vide la cognata che in abiti succinti dimenava il sedere davanti ad alcuni avventori: che visione orribile, insomma, orribile almeno dal punto di vista morale, o forse solo dal punto di vista morale, probabilmente non dal punto di vista degli avventori, ma torniamo alla storia. A quel punto Shagurat si congedò frettolosamente dal fratello pensando che anche lui aveva avuto una sorte infelice perché tradito dalla moglie e fece ritorno al suo palazzo. Strada facendo gli venne una buona idea per non essere più tradito dalle donne: ogni giorno ne avrebbe sposata una e la sera la avrebbe invitata a indossare il suo abito preferito, indi avrebbero consumato il matrimonio e poi le avrebbe tagliato la testa, e il giorno dopo ne avrebbe sposata un’altra e l’avrebbe uccisa avendo l’accortezza di consumare prima e via così a ciclo continuo, un po’ stressante ma si poteva fare.

Shagurat mantenne il suo proposito col doppio risultato di essere sempre più inviso ai suoi sudditi e di decimare la popolazione femminile, al punto che per lo scopo il sultano accettava anche mogli straniere. Un giorno sposò Sherazella, una fanciulla venuta dal lontano Mediterraneo, ma quando dopo la cerimonia le chiese di indossare il suo abito preferito quella si presentò vestita solo di una maglietta azzurra con sopra l’immagine di un giocatore del pallone quadrupede, e a quella orrenda vista il sultano le tagliò subito la testa senza neanche consumare e poi commentò: “Serata persa”.

Quando divenne sempre più difficile trovare spose per il sultano, si fece avanti Sharada, figlia del Visir Shelbah, ragazza molto intelligente che leggeva molto, ascoltava molti racconti, era anche un po’ impicciona, ed era bravissima a risolvere tutti i giochi enigmistici, soprattutto unisci i puntini da 1 a 50. Sharada disse al padre di avere un’idea per fermare quella strage e salvare le giovinette del paese, ma il Visir scettico replicò: “Quali giovinette? Ormai siete rimaste solo tu e tua cugina Shinah.” Comunque il matrimonio si fece e la sera la fanciulla mise in atto il suo piano. Sharada raccontò al sultano una bellissima storia, quella del genio chiuso in una cassetta di sicurezza di una banca emiratina, ma sul più bello si interruppe e disse al marito che aveva sonno e avrebbe continuato il giorno dopo. “Quale giorno dopo? – chiese il marito – Qui si vive come se non ci fosse un domani e se non termini il racconto ti sgozzo per il potere conferitomi da me stesso, non so se mi spiego.” A quel punto Sharada fece finta di acconsentire e disse a Shagurat di avvicinarsi perché il finale era un po’ zozzo e si vergognava, e quindi per essere sicura al 100 per 100 di non essere ascoltata da altri voleva dirglielo in un orecchio.” Il sultano, che non era molto sveglio, e non solo per il sonno, abboccò e quando il suo orecchio fu vicino alla bocca di Sharada, e le sue parti basse vicine al ginocchio di lei, improvvisamente sentì un dolore fortissimo, ma era niente in confronto a quello che successe subito dopo, perché la giovine moglie fu lesta a impradronirsi della scimitarra del marito e ad amputargli la parte dolorante. Così Sharada fece praticamente un golpe, si proclamò Sultanessa ma subito rischiò di macchiarsi di nepotismo perché al marito voleva trovare un buon posto da eunuco, ma ormai, data la composizione della popolazione locale, l’offerta di eunuchi era notevole ma la domanda inesistente. Infatti gli uomini del sultanato avevano provato a cercarsi una donna mettendo inserzioni sui giornali dei paesi confinanti, ma nessuna accettò perché anche all’estero si venne a sapere che l’aspettativa di vita delle donne del sultanato era abbastanza bassa. Da parte sua Sharada dopo quella brutta vicenda non volle più accoppiarsi con nessun uomo, mentre sua cugina Shinah andò via, lontano oltre i mari, e diventò una famosa punkrocker, e nel volgere di una generazione la popolazione si estinse il paese divenne deserto e fu invaso dai tartari.

Carola Di Natale

Carola Di Natale preferisce essere chiamata Carolina oppure Carla o anche Carlina perché quel nome che le sembra altisonante le crea imbarazzo. In fondo lei è una modesta cassiera del negozio di alimentari “Bene zero”, che non propone mai offerte o sconti né tessere fedeltà ma ha una sua clientela perché vende solo cibo ricco di calorie grassi zuccheri e coloranti e lì dentro la gente si sente libera di comprare quello che le piace senza sentirsi in colpa.

E’ la sera della vigilia di Natale e si è fatta quasi ora di chiusura, Carlina è stanca e distratta perché pensa al ritorno a casa e alla cena in famiglia, ma ancora la gente si accalca alla cassa a pagare gli ultimi acquisti, il torrone alle ghiande o il panettone salato con scaglie di wurstel. Un cliente spende 30 euro e paga con una banconota da 50, Carola sbadatamente gli da 30 euro di resto, ma l’uomo le fa notare che ha sbagliato e le restituisce i 10 euro avuti in più. Carola sorpresa per l’onestà del cliente lo ringrazia e a fine giornata racconta l’accaduto al proprietario signor Cecco Scrugi detto Cecchino, e conclude che questo significa che a Natale la gente è davvero più buona. Allora Scrugi sbuffando le risponde: “Se a Natale le persone vogliono essere più buone sono cavoli loro, ma non devono essere distratte, perché se quello non avesse restituito i 10 euro io l’ammanco lo avrei addebitato a te”.

Carlina Di Natale (volto disegnato sulle fattezze di quello di un cane carlino)

Racconto sfuso – Viaggiatori della domenica

Sterno e Sterzo sono due amici che si completano a vicenda perché il primo legge gli scrittori e il secondo c’ha l’automobile. E se vi sfugge com’è che si completano eccovi il racconto di una loro gita. Un sabato mattina sono al bar e Sterno dice che ha scoperto che proprio dalle loro parti c’è il villino dove soggiornò per un paio di anni quel famoso scrittore straniero. “Incredibile, è qui vicino e non lo sapevo, ci potremmo andare domani mattina che è festa, sono poco meno di 70 km, o forse poco più, forse 80, di sicuro non più di 90, non molto più di 90. La villa si può visitare, c’è la foto su internet, c’è pure l’indirizzo e due commenti su trippadvaisor, e poi da quelle parti c’è qualche ristorante dove si mangia bene”. Sterzo non sembra entusiasta, ma l’incuriosisce Sterno quando poi dice che in quel villino lo scrittore c’aveva i convegni amorosi con quella famosa attrice del teatro, e insomma la gitarella si fa. La domenica mattina appuntamento al bar quasi di buonora, insomma non sul tardi, veloce colazione se non altro perché i soldi sono contati, e si parte. La gran parte del viaggio è tranquilla, poche strade trafficate, più quelle accidentate tra i boschi e le campagne, poi quando si arriva dalle parti dove dovrebbe essere il villino si comincia a consultare stritviù, ma quello non capisce, li manda in una strada omonima ma di un’altra città, poi dopo vari tentativi sembra che ci siamo, ma all’improvviso stritviù fa un salto avanti e finisce quasi in un altro comune, prova e riprova meglio iniziare a domandare alle persone, qualcuno non lo sa, qualcuno gli da indicazioni che non si capiscono. Intanto s’è fatta ora di pranzo, il paese si spopola, a un certo punto arrivano davanti alla chiesa, la messa è finita e c’è solo il parroco che sta chiudendo, chiedono a lui dov’è il villino del famoso attore e il prete si fa la croce con la sinistra e scappa via, perché in paese ancora si ricorda la tresca peccaminosa e scandalosa con l’attrice e il fatto che lo scrittore era uno scomunicato senzadio. Si gira ancora, Sterno sale su una torretta mezza diroccata per guardare il panorama e vedere se c’è da qualche parte qualcosa che assomiglia a un villino, ma niente, o forse sì, potrebbero essere quello. Si avviano ma dall’alto sembrava più vicino, però quando arrivano c’è la soddisfazione di vedersi di fronte questa villa in stile… sì, ora non saprei ma era lo stile che si portava all’epoca, e poi due targhe sull’ingresso. La prima targa conferma che è proprio il domicilio scelto dal famoso scrittore e c’è scritto pure che ci incontrava l’attrice, e vai! Poi sull’altra targa c’è scritto che si può visitare il martedì e il venerdì su prenotazione. Beh, si fanno almeno un giro tutt’intorno alla villa e fanno qualche foto. E a un certo punto sentono lo stomaco che si lamenta, allora lasciano stare la villa e lo scrittore e l’attrice e cercano almeno un ristorante dove mangiare qualcosa di buono, ma è pomeriggio e quei pochi che trovano stanno già chiudendo, e gli tocca di fare altri chilometri fino all’autogrill dove mangiare un panino unto. Mentre mangiano, Sterno si accorge che l’amico è deluso, e allora cerca di consolarlo citando scrittori, quello che scriveva che bisogna andare non sapeva dove ma bisognava andare e quell’altro che scriveva che l’importante non è la meta ma il viaggio, ma Sterzo gli dice: “Tutti drogati e ubriaconi i tuoi scrittori”. Finito il panino si mettono a guardare le cose in vendita nell’autogrill, il peluche di un metro e ottanta, la tavoletta di cioccolata da 350 grammi, tutte cose formato famiglia, a Sterno cade l’occhio su un libro di quel poeta, lo mostra a Sterzo e dice: “Lo sai che qua vicino c’è il bosco che gli ispirò quella famosa poesia? Saranno non più di cento km, che dici, vogliamo andarci domenica?” E Sterzo non dice né sì né no, dice solo che deve andare un attimo in bagno, e mentre Sterno continua a guardare i libri lui devia per l’altra uscita, fa il giro, si infila in macchina e abbandona l’amico all’autogrill come un cane.

Tecnica mista: carte colorate e pennarelli, che scritto così sembra quasi una cosa seria.

Racconto di Ferragosto

Questo racconto volevo pubblicarlo la prima domenica di luglio per chiudere la stagione del racconto mensile, che potrebbe riprendere in autunno ma anche no, però preso dal Tour e dal Giro Donne me ne sono dimenticato e la rubrica è finita bruscamente. L’avevo inserito in una mia fanzine di qualche anno fa e ora lo ripropongo qui. Diciamo che è in tono con il clima estivo e poi mi diverte l’idea che si possa prestare ad almeno 3 o 4 letture, almeno spero.

Le donne nude

Abito qui da sempre e per tanti anni non si erano mai viste, neanche una. Poi, un bel giorno, le donne nude hanno iniziato a venire. All’inizio poche, poi forse si sono passate la voce, sono aumentate. Ma anche quando erano diventate una bella colonia non deve essere stato facile per loro perché non passavano inosservate, come si dice, eppure quando qualche volta che ha fatto più freddo qualcuna di loro si è un po’ vestita si stentava a riconoscerla; spogliata da quella sua caratteristica peculiare la potevi confondere con le altre donne, e se le davi a parlare, quando ti accorgevi che era una donna nuda rimanevi un po’ imbarazzato, pensavi che se qualcuno ti aveva visto chissà che cosa pensava. Perché c’era un po’ di diffidenza, anche di ostilità della gente verso le donne nude, e invece il prete diceva che questa chiusura non andava bene, che bisognava accogliere tutti, e lui, per dare l’esempio, ne teneva una in chiesa a fare i servizi nella canonica. Non tutti erano diffidenti, c’è stato anche qualche matrimonio misto, pochi, in verità mi ricordo solo un operaio, uno che lavorava 10-12 ore al giorno, non aveva molto tempo per fare altro, e ne ha sposata una di queste donne nude, e poi hanno anche avuto una figlia mezza nuda. Ma la madre, poverina, è morta ancora giovane, per una brutta pleurite. Poi, piano piano, le donne nude hanno iniziato ad andar via, hanno preferito andare a vivere da qualche altra parte. Forse se ne sono andate perché c’era un clima freddo verso di loro. E alla fine non ne è rimasta più nessuna qui. A qualcuno fa piacere che se ne sono andate perché dice che la razza qui poteva imbastardirsi. Però quando c’erano le donne nude in giro mi pareva che c’era più vivacità, sentivi le loro conversazioni con quel loro modo di parlare, di gesticolare, e quei loro tratti somatici. Adesso siamo tornati ad essere tutti uguali e non lo so se è tanto meglio.

Il ricordo ormai sbiadito di una donna nuda.

Racconto mensile – Un lipogramma

Questo mese ero a corto di racconti, non sapevo cosa pubblicare. Poi è successo che qualche giorno fa discutevo di letteratura e giochi con un amico discendente dalla vecchia nobiltà napoletana e ci siamo messi a parlare di lipogrammi, cioè quel gioco di cui si hanno testimonianze già nell’antica grecia e rilanciato dall’OuLiPo (in Italia OpLePo), che consiste nello scrivere un testo senza utilizzare mai una lettera data in partenza. George Perec scrisse il romanzo La Disparition senza la lettera “e”, io mi cimentai altrove in un racconto senza la lettera “x” e l’esito fu positivo anche perché ebbi la buona idea di non ambientarlo nel mondo dell’enalotto. Il mio amico mi ha sottoposto un suo racconto privo della lettera “erre” che mi ha lasciato un po’ perplesso, ma dato che lui è una persona analogica mi ha chiesto di dargli una mano per metterlo on line in qualche modo, e allora, pur con tutti i miei dubbi, mi sono offerto di ospitarlo in questa mia rubrica. Ecco quindi il suo lipogramma in lettera R, giudicate voi.

Il pvincipe e il povevo – Lipogvamma del Mavchesino Vobevto Mavia Vanievi Della Voveve del Quavtieve Vomevo-Avenella.

C’eva una volta nel Vegno di Vocca Vuvida il Pvincipe Vigobevto che studiava l’avte di vegnave in attesa di succedeve al padve Viccavdo Cuov di Ghepavdo. Il suo pvecettove eva Vodvigo che gli insegnava Stovia e Geogvafia, Lettevatuva e Avti, compvesa quella della guevva, e pvincipalmente – mai pavola fu più oppovtuna – demagogia e populismo. Accadde che un bel giovno il Pvincipino uscì dal suo manievo e accompagnato dai suoi fidi scudievi si vecò al mevcato. Lungo la stvadina eva seduto a tevva un esseve misevabile che paveva un mucchietto di stvacci. Il misevo mendicante si chiamava Vomolo e quando il pvincipe passò a pochi metvi lui si spovse chiedendo la cavità. Il pvincipe si avvicinò pev ascoltave meglio e quegli disse che da tve giovni non mangiava. Allova il pvincipe con fave compassionevole vispose: “Vagazzo, devi sfovzavti pevché se non mangi vischi di movive”. Il misevabile contvaviato disse: “Altezza, questa bavzelletta è vecchia e non fa più videve”. Il pvincipe si inalbevò sentendosi oltvaggiato e fece avvestave lo scveanzato che gli aveva avvecato offesa ed ingiuvia, e lo fece conduvve nelle patvie galeve. Ma quando la seva vaccontò l’episodio al pvecettove il Pvincipe fu vimpvovevato da questi che gli fece notave il gvave evvove stvategico commesso, pevché se si fosse venuto a sapeve che aveva fatto incavcevave un povevo che chiedeva solo la cavità ciò lo avvebbe veso impopolave pvesso i sudditi. Vesosi conto del suo evvove, Vigobevto chiamò le guavdie e gli ovdinò di pvelevave il mendico dalle galeve e, pvima che facesse pavola con alcuno di quanto avvenuto, di tvasfevivlo nelle segvete del manievo. Qui con due pvodi guevvievi lo fece scavaventave nel fossato dove fu ovvibilmente divovato dai vegali coccodvilli e il pevicolo di diventave impopolave fu scongiuvato.

La movale è che pvima di fave una cosa bisogna pensavci bene due volte, anzi tve.