CEO e CEA

L’essere stati giovani in un certo periodo può distorcere il ricordo di quel tempo e portarci a pensare che allora era tutto più bello e più sano e più meglio e più eccetera. Ci si dimentica la scarsità di mezzi, che però non impediva di … no, no, impediva eccome. E se vai a rivedere un mitizzato programma televisivo di quegli anni ti chiedi: tutto qui? Ovviamente all’epoca si mangiava più sano e l’industria alimentare non era come quella di oggi, anzi, come dire? No, era proprio uguale. E dirò di più: in questo vituperato presente le cose possono anche migliorare. Prendiamo proprio l’industria alimentare: una volta la logica era la stessa di oggi: la ricerca del lucro. Per invogliare i ragazzi a mangiare pezzetti di formaggio industriale c’erano le raccolte punti per ottenere degli appetibili (certamente più di quel formaggio) e ricchi premi, tra i quali c’erano i pupazzi gonfiabili dei personaggi delle pubblicità. C’era Susanna, una bambina che oggi sarebbe vittima di bodyshaming, e c’erano i gattini Geo e Gea, ma per averli bisognava mangiare chili di sformaggio.

Le cattive abitudini alimentari permangono, si modificano, e saprete che il tentativo di convincere gli italiani a mangiare formaggi di qualità della filiera italiana, anche a costo di infilarglielo in gola con un imbuto, sono stati bloccati da polemiche gratuite ed esterofile. Ma ora è stata varata un’iniziativa interministeriale che, ricorrendo a fin di bene a quelle vecchie strategie di marketing, mira a educare i bambini a una corretta alimentazione, veicolando nel contempo messaggi dal forte significato civile e sociale. L’idea è semplice come un uovo di Colombo da galline italiane allevate a terra: comprando formaggi della filiera italiana si accumulano punti su una cacio-card personale, e con un numero di punti da stabilire con apposito Decreto Interministeriale si potranno ottenere i pupazzi di CEO e CEA che raffigurano due amministratori delegati di grandi aziende. Il fatto che si tratti di un pupazzo e una pupazza, e che la pupazza non sia una pupa che il pupazzo si spupazza ma un’amministratrice delegata allo stesso livello del collega maschio, è un forte messaggio a favore della parità di genere. Infine i gadget in questione sviluppano il senso di responsabilità dei bambini che dovranno imparare ad averne cura, perché CEO e CEA, come tutti i palloni gonfiati, basta poco per farli scoppiare.

L’illusione di Salò

A Salò c’ero, però non in presenza. Era il 1994, avevo letto di questa Rassegna dell’Umorismo di Riviera del Garda con un concorso per vignette aperto a tutti, e partecipai. In quegli anni la guerra non era più un qualcosa di lontano ma c’erano state quelle del Golfo e nei Balcani e disegnai un soldato che spara e, dato che la terra è rotonda, il colpo gli ritorna alle spalle. Non doveva essere un’idea molto originale perché qualche anno dopo vidi una vignetta simile e, se non ricordo male, ben più vecchia della mia. Comunque quella mia fu selezionata e pubblicata su un bel catalogone, in compagnia anche di illustri fuori concorso come Quino e Cavandoli che disegnò il manifesto della rassegna. L’anno dopo ci riprovarono e, sicuro di essere selezionato e fiducioso in un nuovo catalogo, ci riprovai pure io. Però non mi feci una copia della nuova vignetta, che raffigurava un individuo che con una canna pescava nel catino dove si faceva un pediluvio, e io per primo non saprei dire perché mi sembrava che potesse anche essere vista come una metafora dell’emergente Lega Nord. Purtroppo, dopo la comunicazione che anche quella seconda vignetta era stata selezionata (niente di ché, caricavano tutti), da Salò non giunsero più altre notizie, e mi dispiacque più che altro perché non me ne rimaneva una copia da pubblicare eventualmente altrove, soprattutto perché quella vignetta non mi era sembrata niente male, in particolare l’espressione abbrutita del personaggio. Poi, conoscendo i miei limiti come disegnatore, oggi potrei dubitarne. Ma in fondo non è niente di grave, bando alle illusioni e alla vanità, perché di questo passo sulla terra non rimarrà nessuno che possa ammirare i capolavori delle arti, figuriamoci una mia vignettina.

La Festa della Divisione

Quando c’è un giorno di festa non guardo per il sottile, la cosa più importante è che non si lavora e mi dispiace per chi non può partecipare, come i dipendenti dei musei che devono sostenere le meravigliose sorti e progressive della gloriosa filiera ristoratrice-lavatrice-turistico-alberghiera, e non sarà un caso che non c’è più nessuno che si lamenta dei ponti e del calo di produzione o brunettate simili. Però della festa odierna mi chiedo che senso abbia ormai: con un governo non antifascista e le pattuite ingerenze nelle cose italiane di un paese estero ma non abbastanza, non capisco da chi ci saremmo liberati. E mi sembrano assurdi i discorsi su una ipotetica memoria condivisa, come se un gruppo di esperti dovesse decidere che cosa la gente deve ricordare; e allora dovremmo auspicare anche una memoria condivisa tra ladro e derubato e tra violentata e stupratore e tra cadavere e assassino? Ma neanche tra chi paga le tasse e chi le rottama o le evade o rottama quel poco che non è riuscito a evadere. Non bastasse il politicamente corretto ora si è aggiunta la paranoia sulle scelte e le altre cosucce cosiddette divisive. Si dice che ormai diamo per scontate cose come libertà e democrazia che non lo erano, non lo sono in altri paesi, e potrebbero non esserlo più neanche qui, e il brutto è che la volta in cui mi sembra che siamo stati più vicini a qualcosa che ricorda la dittatura non è stato in occasione di maldestre censure all’intellettuale spocchioso e vittim(ist)a di turno, tanto più ora che il divieto di esprimere un parere diverso o di esistere se si viene dal paese sbagliato è applicato dovunque dalle università ai luoghi di lavoro, ma quando è stato chiuso in casa tutto il paese, è stata imposta una misura sanitaria pena il licenziamento, e l’atteggiamento di molte persone ha fatto pensare che in Italia la STASI avrebbe reclutato molte più spie che nella DDR.

La Zeriba Suonata – La camera di Julia

C’entrano il covid e la gravidanza con un album che tratta di corpo e spazio, c’entra di sfuggita una famosa canzone di George Harrison che l’autrice canticchiava a sua figlia e che per questioni di “spazio” diventa Something In The Room She Moves, ma questa è una faccenda che riguarda solo il titolo, perché per il resto Julia Holter è sempre la musicista che concilia ricerca e gradevolezza pop. Poi vai a sapere cosa si intende per fare ricerca e cosa si intende oggi per popolarità. La cosa importante è che finalmente uscito un nuovo album in studio della Signora Giulia.

Something In The Room She Moves

Penuria di volpi

La Liegi-Bastogne-Liegi insieme al Lombardia è la classica più congeniale agli scalatori: dicono che sono le più dure ma Fiandre e Roubaix lo sono di più, solo che gli italiani hanno il mito degli scalatori e preferiscono le corse con le salite, anche se ormai di scalatori puri non ce ne sono più tanti, soprattutto in Italia, e infatti l’ultimo italiano a vincere la Liegi è stato Di Luca nel 2007. Poi ci sono i rimpianti per il secondo posto di Nibali nel 2012, alludendo al fatto che a batterlo, quando sembrava già vincitore, fu il meno scarso dei fratelli Iglinsky, che qualche anno dopo, quando di Nibali era compagno di squadra, fu trovato positivo. Ma allora mettiamoci d’accordo, perché anche il vincitore italiano del 2007 era un tipo molto positivo. E quindi c’è penuria di scalatori, ma neanche di volpi ce ne sono tante, Marianne lo è di nome e di fatto ma non è una scalatrice, quindi a Liegi c’è penuria di furbizia. Prendete la Israel: ha un problema diciamo di immagine, chi vorrebbe che fosse cassata come la Gazprom, chi ne omette il nome, chi spara minacce, dovrebbe cercare di rendersi simpatica, e invece a 100 km dal traguardo in una strada stretta cade una moto, il grosso del gruppo rimane bloccato per un minuto, e loro che si trovano in testa si mettono a tirare come se fossero all’ultimo km, spalleggiati dagli emiratini di Pogacar. Così le due più valide alternative allo sloveno, Van Der Poel e Pidcock, sono costretti a spendere energie nell’inseguimento, mentre Taddeo ha anche il vantaggio che il punto in cui è previsto il suo attacco è sulla Redoute a soli 35 km dall’arrivo, non a 80 come alle Strade Bianche. Il copione viene rispettato e la corsa praticamente finisce lì, cerca di seguirlo solo Carapaz, che a volte somiglia anche tatticamente a Chiappucci (e sappiamo che tattica e Chiappucci sono due termini in contraddizione), ma l’ecuadoriano rincula, e si trova anche il passaporto cambiato da quelli della RAI che gli fanno prendere d’ufficio la cittadinanza colombiana. Finisce così una stagione di classiche con troppi monologhi, in cui alla fine la più spettacolare, almeno nel finale, è stata la Città di Partenza di Turno-Sanremo.

Almeno nessuno si è fatto male.

Nella gara femminile la rivalità tra Lidl Trek e SD Worx finisce ancora una volta per condizionare la gara. Le due vincibili armate si guardano aspettando la mossa delle rivali, mettono due subcapitane nella fuga da lontano, una ex campionessa del mondo di ciclocross e la campionessa europea su strada in carica, che saranno le terzultime a staccarsi, mentre dietro nessuna si prende la responsabilità di fare la corsa. Solo gli scatti continui di Elisa Longo Borghini fanno rientrare le prime tre inseguitrici sulle prime tre fuggitive, ma questo avviene quando non ci sono più salite per provare a staccarle, e non è detto che ci sarebbero riuscite. E con “Miss Un Milione di Euro” Demi Vollering che non prende iniziative e Elisa 1 che insegue tutte quelle che ci provano, alla fine la volata la vince una fuggitiva della prima ora, la superpassistona australiana Grace Brown che qui aveva ottenuto già due secondi posti e aveva quasi vinto due anni fa, solo che allora davanti c’era Annemiek. Il ciclismo femminile finora si era distinto per maggiore spettacolarità ma, complice anche la serrata rivalità tra le due squadre più forti, di recente prevale sempre più il tatticismo. Demi Vollering difficilmente sarà l’erede di Van der Breggen o di Van Vleuten, ha scelto il momento sbagliato per chiedere quella cifra, e ha anche margini di peggioramento, mentre quelli di miglioramento li hanno Lotte Kopecky, soprattutto se si toglie la grande amica Demi dalle scatole, e Lorena Wiebes che l’altra domenica ha imparato una importante lezione. Longo Borghini è migliorata in volata ma non deve pensare di essere diventata la Wiebes, e infine c’è la Volpe, per la quale tutto quello che viene dovrebbe essere un di più, ma bisognerebbe sapere cosa ne pensa il suo Dio calvinista che le ha dato il dono.   

Grace Brown nel finale sbaglia una curva e calpesta un’aiuola, e in RAI dicono che è conseguenza della stanchezza: infatti.

La leggenda del bevitore di vinsanto

Sulle rive del fiume Merse senza la ypsilon c’era molta gente: chi si tuffava, chi pescava, chi prendeva il sole, chi aspettava di veder passare il cadavere del suo nemico. E sotto i ponti del fiume Merse senza la ypsilon c’erano i senza tetto, i senza documenti, i barboni, gli straccioni, gli zozzoni, i rifiuti umani, gli ubriaconi. Tra loro si aggirava un uomo paffuto ben curato e ben vestito, completamente fuori dal suo mondo, e quando il suo sguardo incrociò quello del noto ubriacone Gian Andrea Cartacci – noto perlomeno nel suo ambiente di beoni – gli si mise davanti come a volerlo bloccare. Cartacci gli chiese se era della polizia, e l’uomo pingue sorrise come a rassicurarlo e chiese a sua volta: Immagino che lei abbia bisogno di soldi. Mi dica di quanto ha bisogno. E l’ubriacone che non seguiva l’attualità e non sapeva niente del continuo aumento del costo della vita, anche perché beveva a scrocco, pensò una cifra senza capirne il potere d’acquisto e disse: Beh, penso che 100 euri potrebbero farmi comodo. E il grassone senza esitare tirò fuori dal portafoglio due banconote da 100 euro e le porse al barbone esclamando: Prendili, oggi è il mio giorno fortunato. Cartacci era abituato ad avere le idee confuse, purtuttavia si accorse che qualcosa non quadrava: Il suo giorno fortunato? Semmai è il mio, o c’è qualcosa che mi sfugge? E poi io, se non ricordo male, io sono un uomo d’onore e non so come restituirglieli. Mi dica come si chiama, dove abita. Il riccone si chiamava Gian Dante Grassocci, ma preferiva rimanere nell’anonimato, anche se la sua faccia rubiconda era difficile da dimenticare, e rispose al derelitto: Non si preoccupi, io sono stato toccato, colpito dalla grazia… . Ah, mi dispiace – lo interruppe Cartacci guardandolo bene in volto a cercare tracce di una ferita o di una contusione. Ma che cosa ha capito? – riprese Grassocci – ho avuto una visione, mi sono convertito, e se un giorno dovesse avere quella cifra la restituisca piuttosto alla cappella della Madonna sul Monte Santa Maria. E detto ciò svanì nella nebbia, anche se era una bella e ventilata giornata di sole. A Cartacci vennero velocemente in mente mille cose, no, sono troppe, facciamo 200 cose che avrebbe potuto fare con quei soldi, per cui si diede una rapida ripulita e andò in città. E quando arrivò in piazza e vide il Bar del Cencio e alcuni suoi amici cenciosi, sventolando una banconota, li invitò tutti a bere. Il suo miglior amico di bevute Gian Gustavo Tecci, non avendo mai visto tanti soldi tutti insieme, diede di gomito al suo compare Gian Cantuccio Borracci e alludendo all’inatteso benefattore disse: Abbiamo una banca! E quella volta non si festeggiò con cartoni di vino, ma con bottiglie di vinsanto, e si bevve fino a che il barista non cacciò tutti fuori a calci. Nell’aria fresca della notte ognuno si congedò frettolosamente e tornò sotto al suo ponte sul fiume Merse senza la ypsilon, solo Cartacci, rimasto solo e senza occhi interessati attorno, volle vedere quanti soldi gli rimanevano, ma era così ubriaco che vedeva doppio e invece di una banconota da 100 ne vedeva ancora due e pensò che quel bar era davvero economico. Poi si ricordò della promessa e pensò che quello che doveva fare, cioè una bella bevuta, l’aveva fatto e ora nulla gli impediva di riportare i soldi alla cappella di Maria. Così prese una bicicletta mezza rotta e arrugginita abbandonata vicino a un muro e barcollando zigzagando cadendo e rialzandosi pedalò sulle strade sterrate fino al Monte Santa Maria. Lì cercò la cappella della Madonna ma era ancora così ubriaco da vederla doppia, e si chiese a quale delle due doveva lasciare i soldi ma si rispose che in fondo era uguale. Il giorno dopo raccontò a tutti delle due cappelle a Nostra Signora e da allora quel luogo fu chiamato Monte Sante Marie.

Visibìlia – Il paese reale però finto

Questa volta non vi parlo di un video ma di un film intero: The Nowhere Inn. Nel 2019 St. Vincent ha fatto un film uscito nel 2020, anzi lo doveva fare Carrie Brownstein, perlomeno a dar retta al film di Bill Benz, ma non è vero. Cioè Bill Benz ha diretto un coso, che ora li chiamano mockumentary, un finto documentario scritto da St. Vincent e Carrie Brownstein, in cui la seconda, nota soprattutto come chitarrista delle Sleater Kinney, gira un documentario sulla prima in cui viene fuori una specie di Dr. Jekill/Mr. Hyde: una Annie Clark persona noiosa che sul palco si trasforma in St. Vincent cantante glamourosa, perlomeno negli ultimi anni, perché agli inizi era la sobria e discreta ragazza che chiedeva a John di sposarla, rassicurandolo che se lei ogni tanto fosse andata tra le braccia di qualcun altro, o più probabilmente di qualcun’altra, lui non se ne sarebbe nemmeno accorto. Insomma è un tentativo di chiarire le idee confondendole e viceversa, figuratevi io che non capisco l’inglese e il dvd non ha neanche i sottotitoli. Il film non è stato ben recensito, dicono che finisca per incartarsi, e lo consiglierei solo ai fans della cantante, che almeno possono (possiamo) sentire la musica e guardare le figure. E la canzone che vi propongo dal film avrei anche potuto inserirla in un’altra rubrica, quella delle versioni, perché qui la sua finta e numerosa famiglia esegue una versione campagnola di uno dei suoi più grandi successi, ma non così famoso da poterci attendere anche la versione dell’Orchestra Castellina-Pasi.

Year Of The Tiger