La vera differenza

Questi sono giorni in cui gli appassionati di ciclismo possono ricordarsi delle gare di derny, le corse dietro ciclomotori, eredi del mezzofondo che si correva invece dietro grosse moto e fu abolito perché pericoloso. Anche le gare di derny, limitate ormai alle Sei giorni e ai solo campionati nazionali ed europei, sono un po’ pericolose, e forse perciò si disputano a parte e non nel programma dei campionati di tutte le altre specialità della pista. Uno dei motivi per cui ce ne ricordiamo ora è che stanno per disputarsi i campionati europei. L’altro, legato proprio alla pericolosità della specialità, è che durante la Sei Giorni di Amsterdam c’è stato un grave incidente per uno dei guidatori (in gergo si chiamano “pacer”), Cees Stam, che da giovane era uno stayer (come si chiamavano gli specialisti del mezzofondo), e poi, sceso dalla bicicletta, è risalito sulla moto. Un percorso, breve, che hanno fatto anche altri, così che da anni, quella rarissima volta che ti capita di vedere una gara, prima il mezzofondo ora i derny, e senti il nome dei pacers, ti ricordi che quello prima correva, e non è passato dall’altra parte della barricata, perché non c’è barricata, e secondo me non è lo stesso che diventare allenatore, anche se a volte si usa pure questo termine. Perché qui sta la vera differenza tra l’uomo e il cavallo, e, se qualcuno preferisce, qualcuno che vuole teorizzare la superiorità della razza umana, qui c’è un valido argomento a favore. La differenza è che un uomo, finita la carriera da ciclista, può diventare pacer, guidatore di derny, mentre un cavallo, quando smette di correre, non può diventare fantino o guidatore di sulky. Certo, qualcuno può pensare che il campione equino passa a fare lo stallone e si immagina che abbia una vita sessuale intensa e divertente, ma bisogna vedere come funziona questa cosa negli allevamenti, nelle scuderie. Mentre invece il povero Stam, nel suo piccolo, ha avuto un figlio anch’egli pistard e, quando è successo l’incidente, stava guidando il nipote. Quindi fate un po’ voi.

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La passione per le corse dietro moto si tramanda di padre in figlio

Monna Lisa questa/o sconosciuta/o

Tutto questo insistere su chi fosse la Gioconda, tutto questo cercare, ipotizzare, era quella, no quell’altra, no addirittura era Leonardo (così Leonardo avrebbe inventato anche il selfie), e ora anche l’esame del dna di qualche discendente, come se da questo dipendesse il valore artistico del quadro. E se invece Monna Lisa fosse stata di Mastromarco?

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Equazione

Il capo degli industriali, quando ha vinto l’elezione a capo degli industriali, ha detto di essere come il ciclista Freire. E  questo già l’abbiamo detto. Il capo degli industriali, quando aveva una squadra di ciclismo, avendo tre uomini in testa alla Roubaix del ’96, si dice che dettò l’ordine d’arrivo, e di sicuro i tre arrivarono in parata e vinse quello che allora era il più forte. E questo pure l’abbiamo detto. Poi, nel 2001, al mondiale di Lisbona, nel finale era davanti l’italiano Simoni, con 20 secondi di vantaggio che potevano bastare, però dietro, in testa al gruppo, andò a tirare l’italiano Lanfranchi, che all’epoca correva per la Mapei, il gruppo riprese velocità, Simoni fu raggiunto, e alla fine vinse Freire della Mapei davanti a Bettini della Mapei. L’ho detto che il commissario tecnico era Bellerini, fino a pochi mesi prima ciclista della Mapei? Ecco, allora secondo me, se il capo degli industriali è come Freire il capo del governo è come Lanfranchi.

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So’ la più forte di tutte

A pensarci sembra strano. Come mai in alcuni sport, atletica, sci, nuoto, tuffi, ginnastica, forse anche il tennis, l’attenzione per le gare femminili è praticamente pari a quella per le gare maschili, e in altri sport proprio per niente, e  forse in questo il calcio, se si pensa a che cos’è il calcio maschile, sta messo peggio del ciclismo. E una volta, prima di internet e del moltiplicarsi dei canali televisivi, era ancora più difficile seguire il ciclismo femminile. Per questo qualsiasi documento può essere interessante. Su michelafanini.com, il sito della squadra omonima, c’è La vita La Storia di Michela Fanini, la ciclista a cui è dedicata la squadra, una storia divisa in 7 video, video approssimativi, che terminano bruscamente, realizzati con filmati privati e di tv locali e anche della RAI. Ma vale la pena di vederli, sia per  ricordare com’era il ciclismo prima della Vos, sia per conoscere la storia di questa campionessa morta in un incidente stradale ad appena ventuno anni, una vicenda, per chi se ne ricorda, simile a quella di Monseré. Per questo si può passare sopra al tono dello speaker, così retorico da diventare ridicolo, tanto che sembra di ascoltare gli Squallor o, peggio, gli spot per i programmi di Raisport. E si può passare sopra anche all’abbigliamento colorato e colorito di papà Brunello, che sembra un incrocio tra un turista americano e un cantante da feste di piazza. In questa storia c’è qualche gara da junior, il titolo italiano a 19 anni, il Giro d’Italia del 1993 che ritornava dopo un paio di anni di stop proprio grazie all’organizzazione di Fanini. E c’è da dire che il ciclismo femminile italiano gli deve molto, piaccia o meno il personaggio, se si pensa anche che continua a organizzare il Giro di Toscana, pure quello dedicato alla figlia, nonostante la protesta dell’anno scorso, e che continua a dirigere la sua squadra, tra parentesi una delle poche che hanno partecipato a quell’occasione mezza persa che è stato il Giro dell’Emilia. Tornando ai video, c’è ancora la vittoria di tappa al Tour 1993 e soprattutto il Giro vinto nel 1994, con i festeggiamenti e le dichiarazioni di Michela, che suonano spavalde, ma poi ascoltate cosa risponde quando le dicono che dopo un paio di mesi avrebbero potuto ritrovarsi a festeggiare un’altra maglia, intendendo quella iridata. E poi ci sono le tre tappe vinte al Tour 1994. Non ci sono i mondiali di Oslo, in cui vinse il bronzo nella cronometro a squadre e fu quarta nella prova in linea, ma ci sono le immagini della Rai per il mondiale di Agrigento in cui cadde nel finale. Ecco, c’è l’intervista di De Zan in cui mostra il casco rotto che in quella occasione le salvò la vita, e proprio per questo, due mesi dopo, la notizia della sua morte in un incidente automobilistico arrivava beffarda, paradossale, assurda. Allora consiglierei, una di queste sere, invece di stare a vedere la tv, i comici che non fanno ridere, le storie morbose dell’ammorbante ex cantante dei Decibel, i talenti inesistenti, oppure il logorroico Leopoldo Renzi che dice di essere il migliore saltellando come un grillo troppo parlante da una rete all’altra, guardatevi invece la storia di questa allegra giovane toscana che, se diceva di essere la più forte, ne aveva sicuramente più motivo di quel suo triste corregionale.

MichelaFanini

Rude boys

Sarà perché seguo poco il calcio, non ho mai capito che cos’è lo stile Juventus, che cosa si intende con questa espressione sentita o letto spesso. Ma, anche se non ne capisco di calcio, anche se la Juventus ha, negli anni, ingaggiato tanti ragazzi rudi, noti soprattutto per l’altrettanto rude trattamento riservato agli arti degli avversari, anche se i colori della Juventus sono il bianco e il nero, credo proprio che lo stile Juventus non abbia a che fare con lo ska.

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Andreotti, nel suo periodo “ska”, dava lezioni di stile.

Bambinoni

Da molti anni seguo il disegnatore Alessandro Baronciani, dai tempi della fanzine A fumetti che divenne un caso. Da allora ha fatto, come si dice, molta strada, (anche in senso letterale, facendo la spola tra Milano e Pesaro): libri, storie e disegni per riviste, copertine e grafica di dischi, illustrazioni pubblicitarie. E lo seguo anche nell’altra sua attività di cantante e chitarrista degli Altro, gruppo punk di cui ho già parlato agli inizi di questo blog. Non so se è per questo suo lato rock, o semplicemente perché è bravo, che gli hanno affidato l’incarico di illustrare il libro di Vanna Vannuccini e Benedetta Gentile Suonare il rock a Teheran, edito da Feltrinelli kids. Insomma vado da Feltrinelli a cercare il volume, chiedo dove trovo i libri di Feltrinelli kids e mi rispondono di cercare nel reparto per ragazzi dove i libri sono divisi per età.  Già, le case editrici sui libri per bambini e ragazzi scrivono l’età alla quale è adatto il libro. L’editoria per ragazzi in Italia è piena di buoni sentimenti e di politicamente corretto, si prefigge sempre un intento didascalico, educativo, per cui ti chiedi come facciano a resistere in questo universo dorato vecchie fiabe in cui i bambini vengono inghiottiti, divorati, infornati o tagliati a pezzettini. E un’altra cosa che questo settore dell’editoria si prefigge di insegnare è che ci sono delle età in cui un libro può essere letto e allora, ne dedurrei, delle età in cui forse il libro può essere buttato dalla finestra, non so. Mi chiedo come fanno questi scrittori a pensare ora scrivo un libro per bambini di sei anni o dieci. O che caratteristiche deve avere un libro per un bambino di otto anni. E gli illustratori come si regolano? Boh. O forse gli scrittori scrivono, gli illustratori illustrano, poi sono gli editori a decidere a che fascia d’età indirizzare il libro. E se fosse così, che criteri usano? Lo danno da leggere a dei bambini cavia, e vedono chi lo apprezza e chi glielo tira dietro? Non so, però questi sono educatori e sapranno bene quello che fanno. E allora, per tornare a quel libro su Teheran, che racconta della difficoltà di fare, in un paese con un regime oppressivo, delle cose che invece per noi occidentali sono acquisite, scontate, mi chiedo a chi si potrebbe consigliare? Io direi anche a quei bambinoni, quegli adulti che, pur di essere contro gli Stati Uniti o l’Europa, hanno quella reazione infantile di simpatizzare con chiunque gli si opponga, fosse pure la peggiore dittatura.

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Quello che manca

Quando uno scrive un libro parla di quello che gli pare, poi se uno se lo compra, lo legge e dentro non ci trova quello che si aspettava è un problema suo. Per cui l’unico appunto che mi sentirei di fare a Pedalare Controvento! Di Mario Cionfoli, edito da Marcianum Press, è l’abuso dei punti esclamativi, spesso fuori luogo, ce n’è uno finanche nel titolo, ma purtroppo il punto esclamativo non figura nell’elenco delle sostanze proibite dall’UCI. Il libro, più che dello sport, è  una storia del costume, della lunga ostilità all’utilizzo della bicicletta, o almeno alla pratica agonistica, da parte delle donne, con le numerose motivazioni mediche, etiche ed estetiche addotte nei secoli. E qui documenti, aneddoti e curiosità costituiscono il maggior pregio del libro.  Ma anche se è una storia del costume non si capisce bene cosa c’entri la vicenda di Giulia Occhini, in arte La Dama Bianca. Al limite, più pertinente, per dare l’idea dei tempi, il capitolo sulla scrittrice Anna Maria Ortese, che seguì un Giro di nascosto, perché la Carovana doveva essere solo maschile, anche se poi il pezzo che scrisse su Coppi, qui riportato, non sembra destinato né comprensibile alla gente che si accalcava in strada a vedere il passaggio dei corridori. Costume più che agonismo; per cui non trovate nominate né le pioniere Paola Scotti, Maria Cressari e Morena Tartagni, né le campionesse mondiali Antonella Bellutti, Paola Pezzo, Alessandra Cappellotto, Marta Bastianelli, Vera Carrara, Tatiana Guderzo e Giorgia Bronzini, ma diverse regine principesse duchesse e contesse cui piaceva andare in bicicletta o su altri veicoli a due o tre ruote, tanto che l’autore sembra quasi sottintendere che l’evoluzione, le aperture siano merito soprattutto dei capricci di qualche nobildonna. Ma è proprio sull’aspetto agonistico che il libro lascia perplessi e si mostra disorganico. Perché, tra tante che potevano essere citate o ignorate, si butta lì l’intero ordine d’arrivo di una antica gara che non ci dice niente? Leggiamo del primo campionato francese vinto dopo una volata mozzafiato con 10 secondi di vantaggio (a che media andavano?). Soprattutto l’autore fa un’affermazione di cui si assume la responsabilità, cioè che per trovare prestazioni sportive ad alto livello bisogna attendere gli anni ‘80. Se ha letto il libro, chissà quanto avrà apprezzato questa affermazione Maria Cressari che nel 1972 battè il record dell’Ora percorrendo 41,471 km (e qui ci vorrebbe proprio uno di quegli esclamativi, ma non ne sono rimasti più, li ha usati tutti Cionfoli). A sostegno della sua tesi ecco il capitolo su “tre autentiche campionesse” nel quale vengono elencate “le loro infinite e splendide vittorie”: Maria Canins, Jeannie Longo e Fabiana Luperini, e qui non c’è problema a elencare vittorie, numeri e date. Tanto di cappello per le tre di cui ho potuto seguire la lunga carriera (per giunta sono state tutte e tre longeve) ma, come dire? quando tanto e quando niente. Non esiste Leontien Van Moorsel, né Nicole Cooke, e neanche la donna che è tutt’uno con la bici, la più forte ciclista di sempre (anche se fosse già iniziata la sua parabola discendente), l’unica per cui si è ipotizzato di correre contro i maschi: Marianne Vos. Non c’è, in questo libro sul ciclismo femminile, Marianne Vos (e qui di punti esclamativi ce ne vorrebbe un peloton), se non ricordata en passant nell’intervista conclusiva da Edita Pucinskaite. Ecco, il libro si conclude con questa intervista alla campionessa lituana, che oggi vive in Italia, e alcune sue risposte sono un po’ sconfortanti. Gli argomenti sono sempre quelli, ingaggi, visibilità, sicurezza, e però pensando a quanto è accaduto negli ultimi tempi non c’è da essere molto ottimisti. Abbiamo visto la frattura tra le partecipanti al Giro Della Toscana 2013 in occasione dello sciopero per la poca sicurezza, in cui anche i tempi della protesta sono stati discutibili. E abbiamo letto e sentito tante volte la richiesta di organizzare corse femminili insieme a quelle maschili, poi, quando questo è finalmente accaduto, come al recentissimo Giro dell’Emilia, la partecipazione è stata scarsa perché le squadre avevano già chiuso la stagione. Al di là di questi episodi, una maggiore presenza delle donne in tutti i ruoli sarebbe auspicabile. Anche come commentatrici televisive. Ricordo in RAI solo episodiche presenze della Cappellotto e della stessa Pucinskaite, poi ci è toccato sorbirci commentatori che ammettevano di non saperne molto, e abbiamo sentito Savoldelli nominare “Naomi Cantele” (chissà a chi stava pensando?). Mi è sempre piaciuto che in ammiraglia ci fossero ex cicliste come la Pregnolato, la Pegoraro, la Ziliute, e semmai mi domandavo perché non ce ne fossero altre, la Bonanomi ad esempio. E mi chiedo se si aggiungeranno la Luperini o la Bronzini (ma quest’ultima non subito, anzi). Proprio la Pucinskaite dall’anno prossimo sarà alla guida di una nuova squadra. Una delle cose che in quell’intervista rimprovera alle giovani cicliste è la mancanza di interesse per la storia, per le campionesse del passato. Ecco, quello che manca allora, e continua a mancare perché questo libro di Cionfoli non lo è, è una storia del ciclismo femminile. E se c’è qualcuno che ha intenzione di scriverla, sappia che, per quanto mi riguarda, una copia può considerarla già venduta.

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Maria Cressari dopo aver battuto il record dell’ora

I miracoli non riescono sempre

Una delle cose che mi diverte su internet è cercare video musicali su you tube, canzoni perdute, versioni live, cover, anche amatoriali. E così facendo, ho scoperto che Tori Amos, tornata in gran forma col recente Unrepentant Geraldines, ha come una sorta di attività parallela di piano-bar. Si, insomma, da sempre, da molto prima delle strane piccole ragazze, si diverte a eseguire brani famosi. Si vede che si diverte, perché avrebbe decine e decine di sue belle canzoni da proporre. Ci ha provato anche con Smells Like Teen Spirit, però i miracoli non riescono sempre, è successo alle Warpaint con Undertow, ma non è che tutte le canzoni dei Nirvana possono diventare piacevoli, anzi.

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